Sommerso: la parola ricorre spesso
su questo giornale, e non solo in questo numero dedicato alla violenza
sulla strada. La strada, a dispetto dei controlli di polizia, delle schedature,
della presenza dei servizi resta il mondo dei non censiti, dei senza nome.
Ci sono i clandestini. Ma non solo loro. Clandestino o regolare che sia,
chi sta sulla strada, se pure ha un nome, non ha, almeno di solito, nessuna
voglia o possibilità di esibirlo. I suoi bisogni sono quelli di
tutti: salute, sicurezza, giustizia. Ma senza un nome i bisogni non sono
riconoscibili. E allora la sofferenza, l’ingiustizia, la violenza fatta
e subita, non hanno remissione. Non hanno storia e non fanno politica.
– Per muoverci – dice un magistrato, Anna
Ivaldi – dobbiamo avere un nome e un cognome. Senza nomi non possiamo fare
niente –. Un osservatorio sulla violenza sommersa questi nomi potrebbe
tirarli fuori. Un altro magistrato, Valeria Fazio, suggerisce un modello:
quello dei gruppi antiusura. Non è impossibile mettere in piedi
un’organizzazione del genere. Occorrono volontari (soprattutto se dotati
di una buona preparazione legale) e, come sempre, un po’ di soldi.
Ricordate il Soccorso Rosso? Al tempo del
fascio era solo una fragile rete clandestina di solidarietà con
le vittime del regime. Poi, al momento giusto, ha costituito uno dei telai
su cui è stata tessuta la tela della Resistenza. Oggi non è
più questione di rosso o di nero, né, grazie a dio, c’è
più bisogno di operare in clandestinità. Al contrario, il
Soccorso che abbiamo in mente avrebbe proprio l’obbiettivo di liberare
la gente della strada, uomini e donne come noi, da quella clandestinità
e da quell’anonimato che li fanno diversi.
a cura di Roberto D’Alessandro - SER.T. Usl 3 Progetto Fenice
C’è una guerra sulle nostre strade?
Dove sono i morti, i feriti, i profughi che vagano verso un incerto confine
di salvezza, cacciati dal proprio passato verso un futuro che è
un buco nero nella storia?
Quante volte di fronte a un evento che
ci angoscia, facciamo di tutto per negarlo alla nostra mente, alla nostra
vista, ci raccontiamo che non esiste o ne attenuiamo la crudezza, ne esorcizziamo
l’orrore come nel lager cinematografico di Benigni? La violenza che attraversa
le nostre strade, invece, ci deve scuotere e interrogare, dobbiamo avere
il coraggio di chiamarla per nome, di porla all’attenzione della città,
quasi amplificando l’urlo di chi sulla strada grida, quasi sempre senza
farsi sentire o che pochi sono disposti a sentire.
Una città fatta per gli uomini deve
accettare di mettere nella propria cartolina turistica anche gli aspetti
più problematici, senza nasconderli, dichiarando con questo di volersene
fare carico, perché lo sviluppo e la promozione della città
passano soprattutto da quanto si è capaci di portare alla luce le
guerre nascoste e di farsi tutti carico della loro risoluzione.
Da alcuni anni un camper bianco (l’Unità
Mobile del Progetto Fenice – Usl 3 Sert/Comune di Genova – gestito dall’A.f.e.t.)
silenziosamente, ogni giorno, si ferma nelle due piazze simbolo della cartolina
della città, De Ferrari e Caricamento. È lì per ascoltare,
accogliere e raccogliere le domande, le storie, le ferite o le cicatrici
di chi sulla strada ogni giorno ritrova o perde un po’ della propria vita.
È lì come un antenna, per capire quei messaggi che la strada
consegna ma che noi cittadini troppo distratti non riusciamo a leggere
e interpretare. È lì per chi cerca un momento di tregua,
di ristoro, di protezione, di dialogo, forse per riprendere il filo di
un discorso interrotto nella propria esistenza, e provare a ricostruire
qualcosa che dia un senso anche alla sua storia odierna, dentro alla guerra.
La fatica della strada, la paura, difendersi o attaccare, essere vittime
o carnefici. Il peggior nemico è l’indifferenza, il non riuscire
a uscire da una situazione che lentamente ti trascina verso il basso, ti
sommerge fino a renderti invisibile, cerca di annullare la tua identità.
La fame, il freddo, l’indigenza, lo star male, l’overdose, la siringa lasciata
sulla strada, le insidie di chi manovra la tua vita, la riduzione in schiavitù,
la clandestinità anche dentro quelli che sono sempre stati i tuoi
confini. C’è una guerra accanto a noi, tra due mondi che convivono
in un precario equilibrio, tra due città che però, lo sappiamo,
sono e devono essere solo una città nella misura in cui sapremo
farle incontrare, aprire canali di comunicazione, gettare ponti (anziché
abbatterli…) . L’unità di strada con i suoi operatori cerca di essere
un ponte, a metà strada, dentro alla strada e alle mille storie
che ogni giorno si intrecciano e si incontrano.
Quasi virale
Se mai dovessi fare due conti, sono certo
di poter "vantare" nel palmares un lustro passato dietro le sbarre di questo
o quel carcere e una decina di anni di strada.
La somma non fa di me un laureato, ma questo
tipo di esperienze, dove sei vittima e carnefice, ti fa capire che la violenza
non è legata solo ed esclusivamente a gesti cruenti, come l’immaginario
collettivo vuole, anzi.
La violenza, quella che non si manifesta,
fatta di sguardi pieni di pregiudizi, di porte chiuse in faccia – magari
perchè sei un poveraccio o perchè sei nato più vicino
all’equatore, perchè sei un disoccupato, sfigato senza casa, o perchè
la casa non la vuoi e preferisci vivere su una roulotte come la cultura
zingara ti ha insegnato – è molto peggio.
Parlo di quella violenza fatta di no sussurrati
con il sorriso sulle labbra che straripa di gentilezza ma che in realtà
non ti dà nessuna possibilità di scelta, nessuna via di scampo:
o con noi o contro di noi.
La cosa che più preoccupa è
che questo tipo di violenza non finisce sui giornali – anche perchè
senza sangue non c’è audience – ma serpeggia negli animi – si fa
per dire – dei benpensanti.
Si teorizza che sia dovuto a quello strano
bisogno di un nemico che giustifichi la paura di affrontare tutto ciò
che non si conosce, dalla diversa cultura, al diverso colore della pelle,
al diverso modo di esprimere un malessere, come fa, tanto per intenderci,
il tossicomane.
Se davvero, come credo, è la paura
la scintilla promotrice della violenza, di questa violenza silenziosa,
quasi virale, nella nostra società civile, sarebbe meglio tentare
di conoscere quello che ci spaventa tanto, per poi magari scoprire che
così spaventoso non è. Amen
Fra Untoria e Croce Bianca
Vico Untoria e Vico Croce Bianca sono punti
nevralgici di una zona del centro storico particolarmente degradata, una
sorta di "terra di nessuno" nel cuore della città, dove la violenza
è l’unica dimensione che regola i rapporti. E’ una violenza esplosiva,
generata dalla competizione per lo spaccio della droga, in cui emergono
gruppi particolarmente aggressivi. Questi si stanno impadronendo della
zona, con la complicità dei tre o quattro proprietari che concentrano
nelle loro mani la quasi totalità dei beni immobiliari e realizzano
profitti altissimi affittando abusivamente alloggi agli spacciatori.
Questa situazione di violenza continua
(scippi, pestaggi, aggressioni), che esplode soprattutto nelle ore serali
e notturne, crea notevole disagio agli abitanti storici della zona, tra
cui vecchie prostitute, qualche famiglia di immigrati dal sud ancora residente
qui dagli anni ’60 e molti travestiti che, a causa della pericolosità
di queste strade, perdono progressivamente i loro clienti.
Lo scopo degli spacciatori appare piuttosto
chiaro: indurre gli abitanti ad andarsene dalla zona, sgomberando così
il campo da quella che è sentita come ultima forma di controllo
sui loro traffici illeciti.
Frocio bastardo
E’ notte fonda, in via Mura delle Cappuccine,
sopra la Questura, uno dei pochissimi luoghi all’aperto a Genova dove gli
omosessuali possono incontrare altri omosessuali. Incrocio lo sguardo di
coloro che girano in macchina, gli ultimi rimasti della serata.
Passa una macchina. A bordo ci sono quattro
o cinque ragazzotti. Mi vedono, parcheggiano bruscamente trenta metri più
in là. Ho un sussulto.
E’ insolito per le modalità di incontro
omosessuale vedere più di una persona su di una macchina e una tale
disinvoltura nel parcheggiarla. Le dinamiche sono usualmente più
compite.
Scendono dalla macchina. Penso a tante
storie di pestaggi raccontatemi. Ci siamo – mi dico. Incredulo mi rispondo:
no è impossibile.
Devo fare qualcosa. Cammino a passo sostenuto
in direzione opposta a loro, a bordo strada dove qualche macchina ancora
passa, nel tentativo di rimanere il meno possibile isolato.
Ehi vieni qui – sono ad un metro da me
sul marciapiede. Mi sento braccato. Cerco di non darlo a vedere. Faccio
finta di non sentire.
Macchine non ne passano. Sono solo, in
mezzo a quattro forsennati. Il quinto si fa avanti con la macchina, pronto
a riprendersi gli amici una volta ultimato il raid.
Me ne ritrovo uno davanti. Siamo alla resa
dei conti, il corpo a corpo.
Mi domanda qualcosa. Non riesco a sentire,
a dire nulla. Mi impedisce di andare oltre. Mi colpisce alla testa. Stordendomi.
Vengo trascinato sul marciapiede e malmenato
dai quattro con pugni, schiaffi e calci. Sono in ginocchio, mi riparo il
viso con le mani. Sento attutite le loro voci che imprecano: – Frocio...
bastardo...
Mi strappano il portafogli, si allenta
la morsa. Raccolgo le forze rimaste e mi divincolo, scappo sanguinante
e scioccato dall’altra parte della strada, a distanza di sicurezza. Lasciano
il portafogli per terra indicandomelo e salgono in macchina. Sospiro di
sollievo. Cerco di memorizzare il numero di targa, ma vedo tutto sfocato.
Si allontanano.
Cessato il supplizio esplodo in una crisi
di nervi. Lacrimo, ansimo, invoco l’aiuto di chi finalmente incontro in
macchina e a piedi. Nessuno si ferma.
Ho la faccia tumefatta, il naso gonfio
e rotto, le costole doloranti. Mi sono pisciato e cagato addosso.
Me ne accorgo solo a casa, dove velocemente
mi sono rifugiato. Ad occhi sbarrati, rintanato sotto le coperte rivedo
la scena infinite volte. Se non fossi stato lì quella sera... Se
fossi scappato subito, sì ma dove?... Se avessi reagito... Se fossi
stato più forte di loro... Se fosse intervenuto qualcuno... Le ipotesi
si moltiplicano con i sensi di colpa.
Dodici ore dopo denuncio il fatto. Vengo
spedito al primo piano della Questura dalla polizia scientifica. Mi vengono
consegnati due raccoglitori con circa cinquemila foto di ragazzi pregiudicati
d’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Su di una scrivania del pianerottolo
al freddo, tra il via vai collettivo devo identificare i miei aggressori.
Dopo alcune pagine i volti si assomigliano tutti, e tutti assomigliano
ai miei aggressori. Restituisco il malloppo. Nessuno identificato – scrive
l’agente che raccoglie la mia testimonianza. Poi commenta: – Ma quello
è un postaccio – riferito al luogo del reato.
Donne e violenza
"La libertà è la cosa più
importante per una persona. Nella vita il carcere mi ha cambiato completamente,
più della strada; non tanto perchè ci sono le sbarre, ma
perchè quando ti viene tolta la libertà, ti senti svuotata
in tutti i sensi. Sentirsi così è ancora peggio della violenza."
Sabina, 31 anni, sposata da tre, quando l’ho incontrata l’anno scorso nel
carcere di Verona stava scontando alcuni anni per reati minori legati alla
tossicodipendenza. Colpevole certo, come tutte le detenute che hanno popolato
l’affresco che ho composto in ‘Donne dentro-detenute e agenti di polizia
penitenziaria raccontano (Clessidra), ma allo stesso tempo vittima
in un sistema che non consente a chi è dissonante e in difficoltà
di avere un’altra chance. Sabina è diventata delinquente, tossica
e quindi sieropositiva, assommando il massimo del punteggio della disperazione,
grazie all’incontro in strada di quello che sarebbe stato il suo amore
e la sua condanna. In strada ha conosciuto il ragazzo che ha sposato, dopo
essere scappata da casa per sfuggire alle troppo amorevoli attenzioni del
padre. In strada ha guadagnato i pochi soldi che le occorrevano prostituendosi,
e poi, dopo l’incontro con il marito già tossico, qui ha iniziato
a farsi con lui; in strada ha contratto il virus, e quindi sempre in strada
è stata arrestata.
Come si fa a dire che la violenza è
fuori dalle mura di casa, quando lei proprio da casa è scappata
per sfuggirvi? Che cosa le fa più paura nel tornare fuori? "Dopo
questo giro che ho fatto dentro alla violenza, in casa, in strada e nel
carcere non c’è molto più da aver paura. Forse quello che
spaventa è che la gente non dimentica. La detenuta ha sempre l’etichetta
. Non so come si metterà per quanto riguarda le amicizie, ci vorrà
tanto tempo per fare accettare la nuova Sabina, e la nuova vita. Nessuno
ci crederà, avranno sempre delle riserve, ributtandoti prima o poi
addosso il passato.
Quando sono depressa mi dico: il passato
è passato, e chiuso. Dirmi questo è la mia corazza, la mia
forza: se mi mettessi a piangere, se mi lasciassi andare non la finirei
più, e allora cerco di ricordarmi che ce la faccio, che sono forte.
Non voglio grandi cose per il mio futuro: invece di farmi le pere come
facevo prima andrò a sciare, in vacanza e in discoteca, anche se
sono un pò vecchiotta, per recuperare tutto quello che ho perso
in questi anni. Il dialogo virtuale, con qualche elemento di sorpresa e
di contraddittorio con Sabina lo riprende Betta, 50 anni, una andale-anda,
come dice lei di se stessa, ovvero una che fa dentro/fuori con la galera,
e che ormai ha una valigia sul marciapiede e una in cella, a Sollicciano,
vicino a Firenze.
"Io non mi ricordo di essere mai stata
se non sulla strada, e ho visto quasi tutto quello che di buone e di cattivo
ti può capitare. Per una donna certo che c’è più violenza:
a parte la questione della forza fisica, nel caso di aggressioni se non
sei più che conosciuta nella zona dove batti sei alla mercè
di tutti. Ma col passare del tempo una cosa l’ho vista cambiare. La gente
non è più chiusa come una volta. Non c’è più
la paura forte di chi esce dal carcere, e siccome si conosce molto poco
di questo mondo più che la paura c’è curiosità, e
quindi voglia anche di conoscere. Penso che una persona, a meno che non
sia proprio gretta e cattiva, quando ci conosce e capisce cosa è
successo, e perché, poi ci accetta. Dalla strada ho imparato una
cosa importante: che siamo tutte uguali, straniere, italiane, tossiche,
puttane. Nei 16 mesi di comunità, prima di venire qui, mi sono resa
conto che giudicavo di più le persone, e invece mi sono accorta
che non c’è differenza, non c’è la razza, il colore, niente
che giustifichi le discriminazioni e i giudizi a priori, la violenza .
E’ un grande insegnamento, che mi è
servito molto, mi ha fatto bene: ho imparato che mettersi su un piedistallo,
nascondersi dietro ad una maschera non serve. Che nulla vale la pena di
fare che ti porti qui, se questo significa perdere tempo e perdere così
la vita del mio bambino, che ha solo quattro anni E poi ho imparato ad
aprirmi, a dire i miei sentimenti. ". In accordo con gli psicologi Betta
ha deciso che darà degli accenni graduali sul perché deve
andare a dormire in carcere, la sera, invece di tornare a casa con suo
figlio. Ma è difficile mentire ai piccoli. "Credo che abbia capito:
quando gli telefono mi chiede: Ma dove sei, mamma, lì c’è
la tv? Appena uscirò definitivamente gli dirò la verità,
anche per evitare che qualcuno gliela racconti prima, e magari male. E
riprenderemo da dove abbiamo lasciato".
(Tratto da Monica Lanfranco,
Donne dentro.
Detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano, La Clessidra
editrice, aprile 1998, pagg. 124)
Barbara
Barbara. Dieci anni fa. Incontrata per caso.
Barbara: vestitini corti, gonne strette.
Commessa di negozio. Senza genitori: sono
morti.
Barbara giovane, bella ragazza.
Barbara ingenua. Non ti fermare qui.
Barbara: la strada, la droga. Lui ti picchia
sempre, ogni notte: vuole i soldi.
Barbara e i clienti: anche loro ti picchiano,
ti bruciano con i ferri roventi, ti torturano. E la tua giovinezza sparisce.
Ti si vede dai segni lasciati sul tuo corpo, nella tua mente.
Poi la paresi. Non riesci più a parlare, a comunicare. Trafile di dottori, ospedali, ricoveri. Ti vogliono curare, guarire, non sanno che tu hai bisogno di guarire dentro.
Barbara. Capodanno ’95. Ti vedo. Sempre
gonne strette e vestitini corti. Truccata. Non sembri manco più
tu. Rivedo la tua storia… la nostra storia, nelle cicatrici che ci hanno
marchiato.
Barbara sta con un vecchio, prigioniera,
ricattata. – Cosa vuoi? Ti do da mangiare, da dormire…
Non può scappare, sedata da mille
Tavor e Roipnol, dono del vecchio.
Il vecchio è buono. Barbara è
ubbidiente. Lascia fare. Bottiglie e candele si infilano in ogni buco del
suo corpo.
– Ti do da mangiare, un posto dove dormire…
Barbara, che fare?
Adesso sto male.
Io, carne di strada
Tutte le volte che la incontriamo, con l’Unità
di strada, ripete la stessa frase: – Ancora un mese e torno a casa – .
Sono quattro anni che lo dice. Sono quattro anni che batte sullo stesso
marciapiede. Viene spesso derubata.
Ogni volta che le succede qualcosa di brutto
s’avvicina un po’ di più all’orlo del marciapiede, il più
vicino possibile alla luce del lampione.
Ha ventiquattro anni, ma ne dimostra venti.
Dice di chiamarsi Hanna con l’acca e di venire da un paesino della Baviera,
sbattuta fuori casa dai suoi. Quando parla, in cattivo italiano, ripete
più volte la stessa frase, per farsi capire meglio. Si aiuta con
i gesti e stasera sputa in continuazione per terra, più del solito.
E’ la prima volta che sale sul pulmino:
ci ha sempre sorriso ma senza darci confidenza, per tre anni di seguito.
Stasera è rimasta con noi più di un’ora. E’ tumefatta, gli
zigomi sono pieni di piccole abrasioni e stringe con le dita della mano
sinistra la zona della milza.
– Hanna, è tanto che non ti si vede,
sei tornata a casa tua?
– Magari. Sono stata in ospedale. Ho avuto
tanto male. Mi hanno caricato in macchina in due e mi hanno portato vicino
a Tortona in un bosco. Ero terrorizzata. Mi hanno picchiato e fatto spogliare.
E’ allora che ho provato un gelo che mi ha paralizzato. In quella radura
sono usciti altri due giovani che ridevano forte. Mi hanno legato le mani
e poi...
Ho dovuto fare tutto quello che volevano.
Uno aveva un coltello da pesca subacquea, di quelli che squarciano le carni.
Voleva che aprissi la bocca. Mi hanno preso a pugni in faccia e a calci.
Dappertutto. Ho iniziato a gridare e quello col coltello me l’ha infilato
tra i denti. Facendo leva me l’ha infilato in gola...
Hanna fa segno fino all’attaccatura del
collo.
– Mi sentivo soffocare. Non mi potevo muovere
con la testa, mentre sotto mi facevano tutto quello che volevano. Piangevo
e se mi divincolavo sentivo la gola lacerarsi.
Mi hanno ancora pestato, fracassato tutte
le ossa del naso, della mascella, due denti e gli zigomi. Mi hanno rotto
le costole e un braccio. Mi hanno usato, mi hanno sporcato tanto...
Mi sono trascinata nuda e sanguinante fino
alla strada. Un tizio mi ha soccorso e portato all’ospedale di Pavia. Ci
sono rimasta ventotto giorni. Ecco perché non mi avete più
visto. Ma lavoro ancora un mese e torno a casa, da mia mamma e da mio papà.
"Vi arrivano molte
segnalazioni di violenze sulla strada a Genova? E in questi casi che fate?
Avete un ufficio o una sezione apposita?" Abbiamo ripetuto queste domande
a una serie di associazioni, sindacati, gruppi che sono in vario modo in
contatto con i soggetti più emarginati o/e più deboli: immigrati,
tossicodipendenti, donne, minori, senza tetto.
A prima vista l’impressione
è stata di aver sbagliato le domande o la città in cui farle.
La questione della violenza sulla gente che sta in strada non sembra essere
né visibile né prioritaria.
"La prima impressione – ci ribadisce Saleh,
responsabile della sezione immigrati CGIL– è che non ci sia
molta violenza a Genova; è una città in cui gli immigrati
stanno meglio che in altri posti, grazie anche al lavoro svolto dalle associazioni
negli ultimi anni. Non ci sono atti di violenza per strada o, per lo meno,
la nostra gente non ne racconta. Certo, nel caso delle prostitute o dei
minori è diverso, la paura impedisce di dire. Ma in generale direi
che atti di razzismo non ce ne sono più. Oggi, poi, anche gli irregolari
quando subiscono un torto da un privato, specie per le questioni di lavoro,
richiedono il nostro aiuto e denunciano".
La CGIL immigrati, oltre al lavoro sindacale,
risponde a qualunque bisogno di un cittadino immigrato. Approfondiamo la
questione andando a parlare anche con la responsabile
del Dipartimento Politiche Sociali del sindacato, Paola Pierantoni.
"No, non abbiamo un ufficio specifico che si occupi di violenze – ci spiega
. – E’ capitato che ci siano state segnalate aggressioni. In questi casi
indirizziamo le persone all’Udi, al Distretto Sociale o al Tribunale dei
minori".
Anche alla UIL e alla CISL non esiste una
sezione apposita sulla violenza che garantisca sostegno legale o psicologico.
Per gli immigrati esiste un ufficio legale gestito dalla Caritas-Auxilium
e ospitato al Centro Servizi Integrato di via Milano ogni martedì
pomeriggio. L’ufficio si occupa di problemi di qualsiasi tipo; tuttavia,
secondo Hassan Assaad del Centro Servizi,
arriva ben poco a loro. "Non c’è coscienza di denunciare. Il problema
è come tutelare l’immigrato senza permesso, che quindi ha paura
di esporsi. Le nigeriane quando vanno in ospedale scappano sempre prima
della fine prevista per paura di essere scoperte dalla polizia. Per altro
abbiamo avuto anche due casi di immigrati che hanno denunciato le forze
dell’ordine. Servirebbe un’assistenza legale che rispettasse l’anonimato".
Rocìo Acosta,
della CISL immigrati, racconta di una ragazza sudamericana a cui
hanno sputato in faccia mentre aspettava l’autobus; ma sottolinea che in
genere di questi argomenti non si parla.
Dunque non se ne parla; ma per Massimo
Costantini dell’Ambulatorio Città Aperta le ferite si vedono.
"Da noi vengono dopo essersi andati a medicare
al Pronto Soccorso – ci spiega – sono per lo più vittime di pestaggi
o accoltellamenti. Infatti, dopo il primo momento d’urgenza, di tamponamento,
per loro curasi diventa un problema, se non sono iscritti al sistema sanitario
nazionale. E’ vero che la legge attuale dovrebbe garantire a tutti le cure
urgenti ed essenziali, quindi anche, ad esempio, farsi togliere i punti.
Ma dal momento che serve la richiesta della visita medica, per chi è
senza permesso i problemi restano".
All’Ambulatorio Città Aperta è
ospitato, il martedì sera, un ufficio di consulenza legale. La domanda
di assistenza legale è infatti molto alta.
In questo quadro, la violenza sulle donne
è un’appendice sommersa, relegata o alle pareti domestiche o alle
prostitute. Quasi nessuno sa, racconta o sembra occuparsene.
Una mediatrice culturale ci dice che è
inutile provare a far parlare le ragazze nigeriane che battono. Secondo
un’altra mediatrice, le violenze in strada alle nigeriane sono poche e
il problema è all’interno della loro comunità.
"La violenza maggiore arriva dai clienti
– dice Liana Prezioso operatrice dell’unità
di strada della LILA – Noi cerchiamo di fare prevenzione, spieghiamo
come evitare le situazioni a rischio. Poi c’è anche la violenza
fra concorrenti, la lotta per il posto, e in questo caso facciamo un lavoro
di mediazione, anche con le forze dell’ordine. Forse ultimamente le nigeriane
tendono a denunciare di più; ma la denuncia spesso non è
risolutiva dei loro problemi".
Per Angela Burlando,
della Questura di Genova, la situazione delle prostitute è
migliorata, grazie anche all’intervento deciso delle forze dell’ordine.
"Per le prostitute le violenze sono all’ordine
del giorno. Da anni lavoriamo per instaurare un rapporto di fiducia con
loro – racconta Alessandra Bucci della Buon Costume
– e ormai le denunce sono numerose. Nel caso delle prostitute nigeriane,
siamo riusciti a spezzare l’omertà, anche grazie all’operazione
Barbie
nera (così chiamata in seguito al ritrovamento di una bambola
voo-doo) che, nel novembre ’98, ha portato all’arresto di vari protettori
accusati di schiavismo sessuale. Certo, noi lavoriamo con pochi mezzi,
attraverso la buona volontà dei singoli. E resta sempre il problema
del recupero di queste donne, che non può essere un problema di
polizia".
Da quel che si capisce, quando si parla
genericamente di violenza sulle donne, l’operazione è di inviare
ai Servizi o all’UDI. All’Unione Donne Italiane si trova assistenza psicologica
da parte di operatrici preparate e anche una consulenza legale gratuita.
Tuttavia
la Presidente dell’Udi, Ada Caldano, ci spiega che i casi di violenza
in strada sono rari; a loro arrivano per lo più donne che scappano
da violenze all’interno delle pareti domestiche.
Sui minori stranieri che stanno sulla strada
è più facile raccogliere notizie; il che non significa che
ci siano più soggetti che se ne occupano.
Alla Croce Rossa esiste un servizio telefonico
SOS bambino (tel. 010 383636) per segnalazioni e interventi su bambini
maltrattati; oltre a questo, l’associazione dispone di un Centro di ospitalità
(tel. 010 3760121) per mamme e bambini che sfuggono da situazioni violente
o a rischio.
Ma un ragazzo immigrato, magari senza permesso,
che subisca episodi di violenza o di sfruttamento – chiediamo a Daniela
Galleano e Barbara Introcaso operatrici di strada – a chi si rivolge?
"Questi ragazzi hanno scarsa consapevolezza
dei loro diritti; o meglio, sono consapevoli di non avere diritti, né
potere contrattuale, specie se il padrone è il padre o uno
pseudo-parente, il cosiddetto zio. Come nel caso delle prostitute, diventa
difficile fare una denuncia. Ciò vuol dire infatti andare in Questura,
e il 90% dei ragazzi di strada non vogliono avere un rapporto con la giustizia,
che percepiscono come persecutoria. Se si trova di sera un ragazzino che
non ha un posto dove andare a dormire, in genere si chiama il Massoero,
dove l’assistente sociale di turno chiama a sua volta la Questura per fare
un affido. A quel punto il ragazzino è rinviato ai Servizi e, nella
migliore delle ipotesi, finisce in una comunità alloggio. Quando
non c’è il rimpatrio assistito".
E’ stato calcolato che, nell’autunno del
’98, siano stati accolti nelle strutture genovesi un centinaio di ragazzini
stranieri, su una stima di duemila in tutto il Comune.
Di questi molti hanno una famiglia, sono
inseriti a scuola e nelle associazioni. Ma, tra loro, c’è anche
chi quest’estate dormiva nei container del porto.
"Sulla strada ci sono soprattutto ragazzi
marocchini e albanesi. Gli episodi di violenza fisica e psicologica sono
moltissimi. Frequenti sono anche gli atti di autolesionismo; con le lattine
si tagliano le braccia. E’ un’esibizione di forza, ma anche una riproduzione
delle dinamiche punitive. A volte sono temporaneamente ricoverati in ospedale,
poi tornano in strada. Sono ragazzi-fantasma".
Criminalità/immigrazione: un binomio tanto facile quanto ingiusto.
Nella graduatoria provinciale sono 15 l
le provincie, tutte del centro-nord (Torino, Milano, Verona, Venezia, Gorizia,
Trieste, Imperia, Savona, Genova, Bologna, Ravenna, Pistoia, Firenze, Roma,
Rimini) in cui ad elevati livelli di benessere si associano migliori opportunità
di lavoro, più alti tassi di criminalità e una grande concentrazione
di extracomunitari (3,3% rispetto all’1,8% della media del paese), regolari
e non, quindi le condizioni ideali per delinquere: eppure la percentuale
di immigrati denunciati, indagati o segnalati sul totale degli immigrati
(4,5%) è sostanzialmente identica a quella rilevata nelle altre
provincie con diverse caratteristiche (4,7%) e quella della media in Italia
(4,3%). Ma resta troppo facile vedere nel "diverso" un "pericolo": nella
percezione collettiva quello dell’immigrazione è il quarto problema
nazionale (26,6%), dopo la disoccupazione (63,9%), la mafia (44,7%) e la
droga (26,8%); e il 48,3% degli italiani ritiene che una futura convivenza
multietnica nel nostro paese sarebbe una fonte di conflitto sociale.
Estratto dalla ricerca del CENSIS presentata
a Roma il 13 aprile 1999
I violenti siamo noi, non le nostre parole
Negro: dal latino niger, chi o che
ha la pelle nera per razza.
Nero: dal latino niger, assenza
di colore.
Queste due parole sono sinonimi, hanno
la stessa origine, eppure il vocabolario attribuisce loro due significati
distinti.
La violenza nelle parole inizia dal significato
che noi gli diamo, siamo noi a decidere che accento dare alla parola, che
importanza dare loro nei nostri discorsi, siamo noi ad esprimerci violentemente.
Le parole non hanno colpe, puoi decidere di "aumentargli lo stipendio"
per dargli il significato che più ti serve: per esempio " stupido"
è il contrario di "intelligente" non è una parola violenta,
ma se detta con cattiveria o con livore può diventarlo. Siamo noi
quindi a fare questa violenza; i nostri sentimenti, le nostre idee cambiano
il ruolo alle parole.
Violenza nelle parole in famiglia, fra
amici, anche fra estranei. Spesso non ci accorgiamo di essere portatori
di paura, tristezza, rabbia, confusione, forse perché questa delle
parole è la violenza che più agisce nello spirito e che quindi
è meno dichiarata. Spesso la mascheriamo dietro uno "Stavo scherzando"
oppure giustifichiamo il nostro comportamento assicurando che le parole
sono "scappate" dalla nostra bocca, ci sono sfuggite e quasi non ce ne
siamo accorti.
Per esprimere un senso di violenza con
le parole non ci si aiuta solo con queste, ma nel dialogo diretto anche
con le espressioni somatiche e soprattutto con il tono della voce. Perciò
dimostrare questa violenza attraverso il mezzo scritto è molto più
difficile, si possono creare fraintendimenti, e allora si deve inscrivere
la parola in un certo contesto.
Violenza della quotidianità, la
più comune, la più diffusa, la più segreta.
Basta prendere un giornale e leggere fra
le parole degli articoli "TUNISINO ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA", ma
non si legge mai "ITALIANO ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA", gli italiani
sono sempre persone, giovani, ragazzi, non è mai importante la loro
nazionalità, ma se si tratta di uno "straniero" diventa per molti
necessario inserirlo in un contesto diverso, per imprimere nella memoria
dei lettori che quello spacciatore era tunisino e che indurrà per
associazione di idee che tutti i tunisini sono spacciatori.
Ecco che la violenza diventa sottile, impercettibile,
ma sempre più profonda, la sua pericolosità aumenta con il
suo essere nascosta.
Questa violenza non è punibile:
sta a noi, storici del presente e creatori del futuro dare alle parole
il peso che si meritano.
Campo di calcio o campo di battaglia?
Il calcio è lo sport più seguito,
ma forse quello più violento. Chi, guardando una comune partita
di calcio, non si accorgerebbe dell’atmosfera violenta che può crearsi
in uno stadio?
Giocatori che si "aggrediscono" per un
fallo non concesso o una qualsiasi decisione del direttore di gara secondo
loro ingiusta, spintoni qua e la, spesso vere e proprie risse nel rettangolo
di gioco: questa è una delle tante facce del calcio moderno.
[...] Tutte quelle reazioni che si susseguono
in campo sembrano riflettersi sugli spalti, dove però non c’è
un arbitro a ricomporre immediatamente, o quasi, la situazione.
[...] Ma la violenza non è solo
morte o comunque solo sangue.
Qualcuno ha mai osservato gli striscioni
che vengono appesi da una parte all’altra dello stadio?
[...] Un’altra manifestazione di violenza
possono essere i banali cori dei tifosi, difficilmente comprensibili attraverso
lo schermo del televisore, che fanno da sfondo all’ambiente stadio e che
sono uno dei modi principali con cui il tifoso fa sentire che c’è.
[...] Per fortuna il calcio non è
solo questo: talvolta ritorna ad essere ciò che era quando è
stato inventato, ossia un gioco con l’unico scopo di divertire il pubblico.
[...] Ma nonostante tutto il gioco del
calcio è, e sempre sarà, uno sport violento.
E’ violenza lasciare un figlio abbandonato a se stesso?
Il fatto che i genitori siano permissivi
potrebbe sembrare positivo. In realtà questo modo di trattare il
ragazzo è molto negativo: egli infatti potrebbe compensare l’affetto
negato rifugiandosi in compagnie sbagliate affrontando i tipici problemi
dell’adolescenza da solo, senza un aiuto o una guida.
[...] I bambini devono essere seguiti e
aiutati dai genitori all’interno dell’ambito scolastico e nell’inserimento
all’interno della comunità, se questo non accade rimangono confusi
ed esclusi.
I figli spesso pensano che i propri genitori
siano troppo severi, ma questo atteggiamento è fondamentale per
l’educazione e la crescita del figlio.
La violenza sullo schermo
La violenza è una realtà concreta,
perciò anche nella televisione, il cui compito spesso è quello
di rispecchiare la realtà, troviamo immagini violente.
Non si può affermare che la violenza
in televisione sia un elemento del tutto diseducativo, poiché molto
dipende dall’emotività e dalla mentalità dello spettatore,
che, davanti ad immagini forti, può rimanere scioccato, cogliere
un insegnamento, o restare del tutto indifferente.
Il problema è come ed in quale contesto
certe immagini ci vengono proposte, e se l’eventuale influenza negativa
che trasmettono resti sul singolo o si ripercuota sulla società.
Gli individui che di più subiscono il bombardamento della televisione
sono i bambini, i quali spesso sono abbandonati ore ed ore davanti a quello
scatolone che diventa il loro migliore amico. Anche programmi banali come
i cartoni animati, che dovrebbero stimolare la fantasia oltre che divertire,
in alcuni casi si presentano crudi e violenti.
Ma non si possono considerare violenza
anche quelle interruzioni di cinque minuti ogni dieci che ci fanno perdere
il filo, e ci mettono davanti ad immagini che non c’entrano niente con
quello che stiamo guardando? Ci infastidiscono, ci annoiano, forse più
delle immagini violente dei telefilm.
E poi come andrebbe avanti la televisione
senza le immagini violente? Noi le guardiamo, il sistema funziona, la violenza
fa audience. Per questo continuano a propinarcela. Finchè non ci
decideremo a cambiare canale o televisione.
Da otto anni in Vico Untoria, nel cuore
del centro storico più degradato, esiste la Casa della Speranza,
un dormitorio per donne italiane senza dimora.
E’ nato per iniziativa delle suore del
Movimento missionario contemplativo di Padre de Foucauld che, rispondendo
all’invito della parrocchia di S. Siro di presentare i problemi della zona
in occasione della visita pastorale del cardinale Canestri (allora vescovo
di Genova), individuarono quello delle donne sulla strada come particolarmente
urgente, anche perché tradizionalmente trascurato.
Allora l’urgenza era rappresentata soprattutto
da donne tossicodipendenti, spesso in AIDS conclamato. Prime ospiti della
Casa sono state infatti alcune di loro, conosciute nei reparti infettivi
degli ospedali cittadini, meta delle visite caritatevoli delle suore.
Da un anno però la situazione è
cambiata: alcolismo e problemi psichiatrici caratterizzano la maggior parte
delle donne attualmente ospitate. Si tratta di persone dall’età
media di quarant’anni, che giungono qua per interessamento della USL da
cui sono seguite. Ciò dimostra come in questi anni la Casa sia diventata
un punto di riferimento anche per il servizio pubblico, senza per questo
mutare la sua natura, ma rimanendo fedele a quel concetto di volontariato
"puro" da cui è nata.
Orgogliose della loro libertà di
azione, le suore rifiutano infatti qualunque prospettiva di convenzione
con gli enti locali.
In un alloggio messo a disposizione dalla
parrocchia di S. Siro, in numero di quattro alla volta, a rotazione, organizzano
con le loro sole forze il dormitorio: una cappella di preghiera, otto posti
letto, adeguati servizi distribuiti su due piani, in ambienti molto modesti,
ma curati al meglio e pulitissimi. Poche e chiare le regole: si entra tra
le 20 e le 20,30 e si esce alle 8 del mattino; è consentito un piccolo
bagaglio; si deve curare l’igiene personale e dei locali; la giornata si
chiude con la preghiera.
Pochi i requisiti per entrare, richiesti
soltanto per evitare problemi per i quali le suore non si sentono attrezzate
sufficientemente: la nazionalità italiana e la capacità di
stare insieme senza creare disturbo.
Un contatto costante è tenuto con
il Massoero e S. Marcellino, che ne hanno tratto stimolo per aprirsi a
loro volta maggiormente alle donne.
L’attività delle suore non si esaurisce
però solo nella conduzione del dormitorio; ad essa è dedicata
la mattina, spesa solitamente a sbrigare commissioni per le ospiti. Il
pomeriggio è invece dedicato alle visite, per parlare ad un’umanità
varia e sofferente, quasi sempre emarginata: anziani della zona, vecchie
prostitute o travestiti, ammalati tra mura fatiscenti o chiusi in qualche
ospizio, ricoverati in ospedale senza nessuno su cui poter contare, in
gran parte tossicodipendenti affetti da AIDS.
Si tratta comunque di due attività
complementari. Nella Casa della Speranza, infatti, alle persone accolte
non si vuol dare solo un letto, ma un sostegno e un’occasione per "camminare".
Si ha però la netta sensazione che questa occasione sia affidata
alla qualità delle relazioni che si stabiliscono con le ospiti,
piuttosto che a preordinati e sofisticati programmi di recupero.
Momento privilegiato delle relazioni è
la sera: Suor Teresa, la veterana del gruppo, parla con emozione della
ricchezza di questo momento, in cui s’incrociano sconforto e consolazione,
serenità e angoscia, abbattimento e speranza…
Schiavismo sessuale, lavoro nero minorile, reati a danno di tossicodipendenti, immigrati, prostitute, omosessuali, ecc.: la strada è teatro di violenze che spesso non trovano giustizia e che difficilmente arrivano sui tavoli dei tribunali. Una violenza sommersa, difficilmente quantificabile. Ne parliamo con Anna Ivaldi e Valeria Fazio rispettivamente GIP e PM presso il tribunale di Genova.
La strada è spesso teatro di una violenza sommersa a danno di persone che per vari motivi – culturali, economici, legali ecc. – hanno più difficoltà a far valere i propri diritti: immigrati, tossicodipendenti, omosessuali, prostitute, minori. Una violenza sommersa che spesso non trova giustizia. Voi magistrati che informazioni avete e come vi muovete rispetto a questo fenomeno?
Anna Ivaldi
Del fatto che ci sia un sommerso abbiamo
coscienza solo come cittadini.
Il sommerso per noi è proprio sommerso,
è una realtà che ignoriamo, perché possiamo muoverci
solo su denuncia o querela; in ogni caso deve esserci una persona che dichiari
il reato.
Sono le violenze nei confronti delle prostitute
che emergono di più, forse perché la violenza in questi casi
è così forte da superare tutte le barriere. Una violenza
che spesso è fisica, ma non solo. Molte prostitute sono in condizioni
che si possono definire anche giuridicamente di schiavitù, reato
in cui non ci si imbatteva più da tempo.
Valeria Fazio
Noi lavoriamo su denuncia o querela. Il
problema è che ci vuole l’iniziativa della vittima. Se la persona
ha delle difficoltà a denunciare, a noi non arriva niente.
Faccio un esempio: c’è una norma
nuova – art. 16 legge 40 del 1998 – che permette di rilasciare alle prostitute
straniere un permesso di soggiorno per un periodo di sei mesi rinnovabile
di altri sei o più per motivi di giustizia.
La norma non riguarda solo la prostituzione
ma anche lo sfruttamento dei minori o altri casi in cui ci sia concreto
pericolo per l’incolumità della vittima. Le condizioni per applicare
questa norma sono però che la vittima abbia tentato di sottrarsi
alla situazione in cui si trova o che renda dichiarazioni nel procedimento.
Prima di questa norma il permesso temporaneo di sei mesi era dato per ragioni
di giustizia solo se c’erano dei testimoni. Non è molto, ma c’è
un progresso: può essere la strada di superare l’handicap di essere
entrati illegalmente.
I casi del genere comunque non sono frequenti
– ne capita più o meno uno all’anno – perché, come ho detto,
per accedere al tribunale ci vuole un’autonoma capacità di iniziativa.
Autori di violenze
possono anche essere coloro che dovrebbero invece reprimerle. Raramente
affiorano casi del genere, ma sono molte di più le segnalazioni
di abusi o reati che si possono raccogliere sulla strada.
Cosa fate in questi
casi?
Anna Ivaldi
E’ difficile stabilire quando si è
di fronte ad un vero abuso delle forze dell’ordine e quando invece a un’accusa
falsa. Noi tentiamo di fare indagini anche nei confronti di appartenenti
alle forze dell’ordine. A volte sono emersi casi di illegalità.
Sono, comunque, difficili da dimostrare, anche quando arrivano a noi, perché
per lo più non ci sono testimoni.
Valeria Fazio
Vale comunque sempre la pena denunciare.
Secondo la mia esperienza, i soprusi avvengono
quando la professionalità dell’operatore è minore: si è
violenti quando si ha paura o si vuole dimostrare qualcosa. Per fare la
denuncia, comunque, non è necessario passare per la polizia: noi
procediamo autonomamente. Si può venire direttamente in Procura.
Una delle remore a denunciare abusi è
la paura di essere a nostra volta denunciati per calunnia. Ma anche l’accusa
di calunnia deve essere provata. Su questo, quindi, si può stare
tranquilli.
Diverso è arrivare a fare giustizia.
Questo è più difficile. L’indagine però serve in tutti
i casi, anche se non porta all’accertamento del reato, perché è
utile che si sappia che c’è un controllo, che qualcuno fa degli
accertamenti, delle indagini anche su come lavorano le forze dell’ordine.
Denunciare è servito anche in passato perché certi tipi di
soprusi stile anni ‘70 sono venuti meno. Oggi le forze dell’ordine sono
cambiate molto: gli operatori sono più preparati. Ci sono, inoltre,
più garanzie formali, come le regole sugli arresti.
Certo, è cambiata la composizione
dei soggetti deboli: prima erano cittadini italiani, oggi sono prevalentemente
stranieri, e sono sempre più deboli. Per esempio, se uno straniero
sparisce, nessuno se ne accorge.
Sulla strada raccogliamo
molte segnalazioni di soprusi.
Che cosa se ne può
fare? E’ utile un osservatorio sulla violenza, una sorta di tavolo che
metta insieme soggetti diversi che a vario titolo ruotano o potrebbero
ruotare intorno al problema?
Anna Ivaldi
L’ipotesi dell’osservatorio potrebbe essere
interessante.
Noi, comunque, per muoverci, dobbiamo avere
un nome e un cognome. Una persona reperibile. Senza nomi non possiamo fare
niente.
Ed è importante la tempestività:
i fatti devono essere recenti. Noi possiamo lavorare solo su denunce accertabili
e quindi recenti.
Lavorare su materiale più sfumato
è faccenda delicata.
Valeria Fazio
Quando si parla di soprusi è bene
avere casi specifici su cui indagare.
Quanto all’osservatorio sulla violenza
ne vedrei due funzioni: una di sensibilizzazione, l’altra di iniziativa
legale.
Sotto il profilo dei processi, si può
fare riferimento al modello usato contro l’usura: mettere insieme più
segnalazioni e farle emergere contemporaneamente.
Bisognerebbe studiare l’esperienza di questi
gruppi contro l’usura che hanno lavorato soprattutto al sud: hanno raccolto
denunce e sono arrivati a qualche risultato.
Il fatto che ci siano dieci persone che
denunciano lo stesso reato serve per le indagini e tutela il singolo che
denuncia.
Forse sarebbe opportuno che questi due momenti, quello della sensibilizzazione e quello giudiziario si parlassero.
Anna Ivaldi
Su questo ho qualche dubbio. Noi non dobbiamo
farci influenzare nel nostro lavoro. Per il giudice è pericoloso.
La violenza nelle nostre strade è forse una realtà sempre più sommersa, che tende a coinvolgere, nel ruolo di attori ma anche di vittime, soprattutto i soggetti deboli ed emarginati. Sull’argomento intervengono Andrea Gallo (responsabile della Comunità di San Benedetto al Porto), Monica Lanfranco (direttora del trimestrale femminista Marea) e Marco Bouchard (giudice del Tribunale dei minori di Torino).
Violenza e non-violenza
Don Gallo
Oggi esiste un nuovo tipo di violenza,
di fascismo, ed è la consacrazione del principio della disuguaglianza.
Per i colonizzatori che andarono in America
gli indigeni non avevano anima perché non avevano armi. Oggi l’immigrato
non ha diritti perché non ha documenti.
Contro la violenza della disuguaglianza
bisogna recuperare le "virtù povere", ad esempio la mitezza, la
non-violenza. Il cristianesimo fornisce molti esempi di queste "virtù
povere" da Gesù, la "pecora mansueta" che va al macello della malvagità
umana. Eppure nella Chiesa la non-violenza non è ancora una dottrina
accertata. Il Catechismo romano lascia ancora qualche spazio, troppo spazio
alla guerra "giusta" e alla pena di morte.
E invece bisogna tornare a Gandhi, alla
non-violenza assoluta. Ma per affrontare efficacemente la violenza bisogna
rimuoverne le cause strutturali, agire anche sulla violenza istituzionale
che produce continuamente obblighi, divieti, esclusioni, recinti che per
il debole e l’inerme sono quello che per il disabile sono le barriere architettoniche.
La violenza sulle donne
Monica Lanfranco
A partire dagli anni ’70, le donne hanno
parlato a viso aperto di stupro (allora si diceva che si trattava della
violenza più evidente, ma che ben altre violenze non viste avvenivano
dentro le mura di casa). Poi la consapevolezza è aumentata e si
è passate a nominare ed indicare tutte le altre violenze: la discriminazione
nel mondo del lavoro; l’assenza di pari diritti che consentano lo sviluppo
piena delle potenzialità di ciascuna, e poi l’ultima violenza, generata
dalla globalizzazione, quella della schiavitù di donne e bambine
provenienti da altri paesi che approdano in Italia per salvarsi dalla fame
e dalla guerra e in molte vengono gettate sulla strada a prostituirsi.
I dodici articoli
Don Gallo
La non-violenza non è rassegnazione;
lascia spazio all’indignazione ed alla ribellione, attraverso i mezzi più
opportuni.
L’obiettivo deve dunque essere quello di
eliminare la violenza strutturale, stando attenti a non cadere nella trappola
di rendere semplicemente più buono il proprio cuore.
Certo non si può pensare la città
come l’Eden. La città è un luogo di contraddizioni e lacerazioni
che devono essere affrontate. L’obiettivo è un equilibrio fra diritti
e sicurezza, ma non è calpestando i diritti che si va verso la sicurezza.
E tutti siamo responsabili, nel senso che tutti dobbiamo farci operatori,
costruttori di pace. C’è una buona guida per questo: i primi dodici
articoli della Costituzione Italiana.
Internet
Monica Lanfranco
Della violenza si torna a parlare, tra
le donne, magari non nelle piazze ma con uguale passione attraverso Internet.
Ne discutono le iscritte alla lista ‘femminismi’, creata dalle due riviste
Marea
e Il paese delle donne, che attraverso i siti www.marea.it
e www.womenews.net consentono gratuitamente
di entrare in lista. Qui il dibattito è aperto e particolarmente
attivo proprio sul tema, spinoso e delicato, della scelta e dell’obbligo
nell’attività di chi si trova sulla strada. Scelta libera, dicono
le italiane con Carla Corso; violenza e terrore, raccontano le giovani
albanesi e nigeriane vittime della tratta che le getta in strada, alla
stregua di cose da usare. Un lavoro come un altro, incalzano le prime,
un destino segnato da soprusi e morte, affermano le altre. E in rete il
dibattito si accende quando, inevitabilmente, si tocca il tema della sessualità.
Se non ci fosse una richiesta da parte degli uomini non ci sarebbe prostituzione,
non ci sarebbe violenza. Ma cosa dire alle donne che, invece, sostengono
la vendita di sesso come libera scelta, migliore di quella di lavorare
in ufficio con tempi e salario regolato da altri? La libertà delle
donne di gestire il corpo, e le sue tante verità, genera (per fortuna)
ancora discussioni e accende gli animi.
Altra giustizia
Marco Bouchard
A Torino abbiamo sperimentato forme di
"altra giustizia". Si tratta in particolare di due tipi di esperienze:
coi minorenni e con gli adulti.
Quella coi minori si basa sull’idea di
cercare di stabilire in tempi brevi un contatto fra il minore autore di
violenze e le sue vittime: se entrambi sono d’accordo, si capisce. A Torino
quest’esperienza, dopo una prima fase sperimentale, si è ormai consolidata;
c’è un patto fra Comune, autorità giudiziaria minorile e
Ministero di Grazia e Giustizia per verificare la possibilità di
risposte diverse rispetto a quella sanzionatoria che comunque spesso delude
le aspettative della vittima.
Da una parte, dunque, si sottolinea il
principio di responsabilità del ragazzo; dall’altra, si cerca di
dare una diversa soddisfazione alla vittima. E’ un’esperienza di "altra
giustizia" che ha avuto molti riscontri positivi e che ha fatto scuola
anche in altre città.
Per quanto riguarda l’esperienza con gli
adulti, pensiamo che oggi le forze dell’ordine siano al crocevia di esigenze
molteplici, da gestire in modo flessibile e articolato.
La nostra tesi è che molte notizie
di reato che arrivano alle forze dell’ordine possono essere gestite rapidamente
attraverso la conciliazione, mentre altre avanzano istanze diverse rispetto
a quella punitiva. Un esempio è il caso della donna che ha dei conflitti
col marito e che ricerca dalla giustizia una risoluzione di questi conflitti
piuttosto che la carcerazione del marito.
Di qui la necessità di fornire strumenti
adeguati alle forze dell’ordine, attraverso corsi di formazione su come
affrontare l’alcolismo, la malattia mentale ecc., per dirimere i conflitti.
L’idea è di formare un operatore di polizia che accanto alla repressione
abbia compiti di prevenzione in senso positivo, che sia insomma un produttore
di sicurezza.
C’è poi una terza esperienza che
riguarda la difesa dei più deboli. Si tratta di una sezione di polizia
giudiziaria per reati a danno di tali soggetti e di un pool di magistrati
che si occupano specificamente di minori, donne e anziani. Naturalmente
la tutela del minore maltrattato diventa spesso tutela del minore straniero,
dalla ragazzina cinese che lavora in qualche laboratorio clandestino al
ragazzo maghrebino che vende fiori.
Ricordiamo qui alcune leggi che tutelano i diritti delle cosiddette "fasce deboli".
Contro la discriminazione
razziale, etnica e religiosa
Con il Decreto-Legge n. 122 (1) del 26
Aprile 1993 le pene per i reati di discriminazione razziale, etnica e religiosa
sono stati inasprite.
I reati sono quelli indicati dall’articolo
3 della legge del 13 Ottobre 1975, n. 654, e dalla legge n. 962 de 9 ottobre
1967.
Sono previste come pene aggiuntive le seguenti
sanzioni accessorie:
- L’obbligo di prestare attività
non retribuita con finalità sociali o di pubblica utilità
(per non più di 12 settimane);
- Il divieto di uscire di casa in determinati
orari (per non più di un anno);
- Sospensione di patente, passaporto o
documenti per l’espatrio, divieto di portare armi;
- Divieto di partecipare in qualsiasi modo
a propagande elettorali, per un periodo non inferiore a tre anni.
Inoltre chi in pubbliche riunioni, faccia
atti o porti simboli usuali di organizzazioni razziste rischia tre anni
di galera e da 200 a 500 mila di multa, non ha l’accesso in competizioni
agonistiche. Per quest’ultimo caso si procede d’ufficio.
Lavoro e sieropositività
La Legge 135 del 1990, nell’articolo 6
dice che "E’ vietato ai datori di lavoro pubblici e privati, lo svolgimento
di indagini volte ad accertare nei dipendenti o in persone prese in considerazione
per l’instaurazione di un rapporto di lavoro l’esistenza di uno stato di
sieropositività".
Il lavoratore affetto da Aids o altre malattie
correlate alla presenza del virus HIV, al pari di ogni altro malato, non
può essere licenziato durante la malattia se non al termine del
periodo "di comporto", stabilito di norma nei contratti collettivi.
A chi ci si può
rivolgere
Anche a Genova ci sono alcune associazioni
che tutelano i diritti dei lavoratori sieropositivi, fra cui la L.I.L.A.
(tel. 010 2462915) l’ANLAIDS (tel. 010 2514242), e i sindacati.
Denuncia degli sfruttatori
Il Decreto-Legge n. 286 del 25 Luglio 1998,
articolo 18, prevede, nel caso ci siano concreti pericoli per l’incolumità
della persona immigrata, od in situazioni di violenza o di grave sfruttamento,
che venga rilasciato uno speciale permesso di soggiorno di sei mesi, rinnovabile
per un anno o, se c’è un processo in corso, per l’intera durata
del processo stesso.
Tale speciale permesso di soggiorno prevede
anche la possibilità di partecipare ad un programma di assistenza
e di integrazione sociale, la possibilità di iscriversi al collocamento
e di godere dell’assistenza sanitaria.
A chi ci si può
rivolgere
Ci si può rivolgere alle associazioni
di patronato presso i sindacati, presso il Centro Servizi Integrato Immigrati
(tel. 010 255423), presso l’Ufficio Stranieri e Nomadi del Comune di Genova
(tel. 010 5574559).
L’Ecstasy, come le altre droghe di sintesi,
è una sostanza simile nella struttura agli allucinogeni (la mescalina)
e agli eccitanti (metamfetamine). Può essere combinata con diverse
sostanze, fra cui l’eroina. E’ stata sintetizzata per la prima volta nel
1914 da un laboratorio tedesco, ed ha cominciato a diffondersi a partire
dagli anni ottanta, nei techno party in Germania, in Inghilterra, nei Paesi
Bassi e poi in tutta Europa. Il suo uso è in costante aumento.
L’Ecstasy dà la sensazione di potenziare
le proprie capacità di socializzazione e di benessere.
Il suo uso è preferito al consumo
di eroina, perché comporta minori rischi di emarginazione e di infezione
da HIV, non richiedendo l’uso di siringhe. Tuttavia spesso con l’assunzione
di Ecstasy cala il livello di percezione del rischio (per cui aumenta per
esempio la possibilità di avere rapporti sessuali non protetti)
e il livello di attenzione (per cui diventa assai pericoloso guidare).
Nel caso che ci si senta male dopo averla
assunta, è necessario mantenere la calma, bere molta acqua o bevande
mineralizzanti ed evitare assolutamente l’alcool. Bisogna portarsi all’aria
aperta per respirare meglio e chiamare in ogni caso un’ambulanza.
Per diminuire il rischio di crisi, è
necessario fare alcune pause nel ballo, bere molta acqua evitando l’alcool,
prendere ogni tanto una boccata di aria fresca e portare abiti ampi e freschi,
se possibile non di materiali sintetici, che permettano la respirazione
del corpo.
Dal punto di vista legale, il possesso
di Ecstasy per uso personale e non per spaccio, quindi in modiche quantità,
non è considerato reato dalla legge italiana, ma comporta alcune
sanzioni come il ritiro della patente, una multa, oppure la segnalazione
ai Servizi Sociali. In questo caso la Prefettura convoca immediatamente
i genitori del minore.
Al Ser.T. i consumatori di Ecstasy arrivano
in tre modi: attraverso la segnalazione da parte della Prefettura, i contatti
con i CIC (Centri di Informazione e Consulenza) ed i Centri Giovani, oppure
attraverso i genitori stessi.
Se al Sert.T. ci arrivi tramite il CIC
od il Centro Giovani, che magari hai contattato per altri problemi, la
famiglia non viene informata se tu non sei d’accordo, e, se questo si ritiene
necessario, sarai tu stesso a discutere con gli operatori delle modalità
con cui farlo.
In questi ultimi anni il Ser.T. si sta
attrezzando per tutelare i consumatori di Ecstasy (i cosiddetti "nuovi
arrivi") attraverso spazi differenziati, come lo Spazio G in Piazza Dante
od il progetto Vela nel Centro Storico; ma anche nei luoghi dove non sono
disponibili spazi appositi l’operatore di riferimento cerca di garantire
tempi differenti rispetto agli altri utenti, per esempio non lasciandoti
in sala di aspetto da solo.
Secondo compleanno
del Centro Sociale "Inmensa"
Il 24 Aprile il Centro Sociale "Inmensa"
festeggia il suo secondo compleanno. Alle ore 17 si terrà un dibattito
su "Territorio e ruolo del Centro Sociale", alle ore 20.30 cena sociale
e inaugurazione della nuova mensa, alle ore 22 concerto Ska con Franceska
e Matrioska.
Festa della Liberazione
Il 24 Aprile alle ore 22 presso il Centro
Sociale "Terra di Nessuno" verrà proiettato il video "I sentieri
di fischia il vento". Seguirà il concerto del gruppo Slang da Milano,
con musica HIP HOP, Jungle, Jazz core.
Graffiti in libertà
Il 25 Aprile presso il Centro Sociale "Terra
di Nessuno" dalle ore 14 si terrà una convention di grafomani, graffettari
e diversi gruppi di lavoro che coloreranno gli spazi grigi intorno al Centro
Sociale. Dalle 15 in poi si potrà gustare fave, salame e formaggio
a tempo di musica.
Festa della Liberazione
Il 25 Aprile a Frascaro la Comunità
di San Benedetto al Porto in collaborazione con la provincia di Alessandria
organizza una giornata di festa per l’anniversario della Liberazione.
Tossicodipendenza
a Genova: storia, realtà, progetto
Il 26 Aprile presso la Sala dei Chierici,
nella Biblioteca Berio in Via del Seminario si terrà il convegno
"Tossicodipendenza a Genova: storia, realtà, progetto.", organizzato
dal Ser.T. Azienda USL N. 3 "Genovese" e dalla Regione Liguria. Il convegno
si terrà dalle ore 9 alle 13 e dalle 14 alle 17:30. Per la partecipazione
è richiesta la presentazione dell’invito all’ingresso.
Festa del Primo Maggio
a Frascaro
Come ogni anno, la Comunità di San
Benedetto al Porto dà appuntamento a Frascaro per festeggiare insieme
la festa dei lavoratori. Informazioni presso la Comunità di San
Benedetto.
anno due - numero quattro - aprile 1999
- distribuzione gratuita
Rivista mensile di carattere socio-culturale
- A cura dell’Associazione Comunità San Benedetto al Porto - Via
S. Benedetto, 12 - 16129 GENOVA - tel. 010267877 - fax 0102464543 - Autorizzazione
del Tribunale di Genova n° 32/98 del 24-11-1998 -
Redazione: Via
Amba Alagi 6/8r - 16129 GENOVA - tel & fax 0102461290 - e-mail: [email protected]
- Direttore responsabile: Francesco Pivetta - Caporedattore:
Claudio Costantini - Hanno collaborato a questo numero: Hassan Assaad,
Maria Cecilia Averame, Gabriele Baroni, Roberto Boca, Carola Frediani,
Marco Lombardo, Elvira Malfatto, Massimiliano Olivieri, Gabriella Paganini,
Liana Prezioso, Antonello Sechi - Gli articoli possono essere riprodotti
citando la fonte - Il progetto dell’Associazione San Benedetto al Porto,
in collaborazione con il Ser.T. Usl 3 genovese e la L.I.L.A., è
finanziato dal Fondo Regionale lotta alla droga della Regione Liguria (delibera
della Giunta n° 740 del 27.03.1998) - Tiratura: 2500 copie -
Stampato
presso: TipoLitografia - Coop. Soc. La Lanterna.