Soccorso stradale

Sommerso: la parola ricorre spesso su questo giornale, e non solo in questo numero dedicato alla violenza sulla strada. La strada, a dispetto dei controlli di polizia, delle schedature, della presenza dei servizi resta il mondo dei non censiti, dei senza nome. Ci sono i clandestini. Ma non solo loro. Clandestino o regolare che sia, chi sta sulla strada, se pure ha un nome, non ha, almeno di solito, nessuna voglia o possibilità di esibirlo. I suoi bisogni sono quelli di tutti: salute, sicurezza, giustizia. Ma senza un nome i bisogni non sono riconoscibili. E allora la sofferenza, l’ingiustizia, la violenza fatta e subita, non hanno remissione. Non hanno storia e non fanno politica.
– Per muoverci – dice un magistrato, Anna Ivaldi – dobbiamo avere un nome e un cognome. Senza nomi non possiamo fare niente –. Un osservatorio sulla violenza sommersa questi nomi potrebbe tirarli fuori. Un altro magistrato, Valeria Fazio, suggerisce un modello: quello dei gruppi antiusura. Non è impossibile mettere in piedi un’organizzazione del genere. Occorrono volontari (soprattutto se dotati di una buona preparazione legale) e, come sempre, un po’ di soldi.
Ricordate il Soccorso Rosso? Al tempo del fascio era solo una fragile rete clandestina di solidarietà con le vittime del regime. Poi, al momento giusto, ha costituito uno dei telai su cui è stata tessuta la tela della Resistenza. Oggi non è più questione di rosso o di nero, né, grazie a dio, c’è più bisogno di operare in clandestinità. Al contrario, il Soccorso che abbiamo in mente avrebbe proprio l’obbiettivo di liberare la gente della strada, uomini e donne come noi, da quella clandestinità e da quell’anonimato che li fanno diversi.




DisSERTando: Una sola città

a cura di Roberto D’Alessandro - SER.T. Usl 3 Progetto Fenice

C’è una guerra sulle nostre strade? Dove sono i morti, i feriti, i profughi che vagano verso un incerto confine di salvezza, cacciati dal proprio passato verso un futuro che è un buco nero nella storia?
Quante volte di fronte a un evento che ci angoscia, facciamo di tutto per negarlo alla nostra mente, alla nostra vista, ci raccontiamo che non esiste o ne attenuiamo la crudezza, ne esorcizziamo l’orrore come nel lager cinematografico di Benigni? La violenza che attraversa le nostre strade, invece, ci deve scuotere e interrogare, dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per nome, di porla all’attenzione della città, quasi amplificando l’urlo di chi sulla strada grida, quasi sempre senza farsi sentire o che pochi sono disposti a sentire.
Una città fatta per gli uomini deve accettare di mettere nella propria cartolina turistica anche gli aspetti più problematici, senza nasconderli, dichiarando con questo di volersene fare carico, perché lo sviluppo e la promozione della città passano soprattutto da quanto si è capaci di portare alla luce le guerre nascoste e di farsi tutti carico della loro risoluzione.
Da alcuni anni un camper bianco (l’Unità Mobile del Progetto Fenice – Usl 3 Sert/Comune di Genova – gestito dall’A.f.e.t.) silenziosamente, ogni giorno, si ferma nelle due piazze simbolo della cartolina della città, De Ferrari e Caricamento. È lì per ascoltare, accogliere e raccogliere le domande, le storie, le ferite o le cicatrici di chi sulla strada ogni giorno ritrova o perde un po’ della propria vita. È lì come un antenna, per capire quei messaggi che la strada consegna ma che noi cittadini troppo distratti non riusciamo a leggere e interpretare. È lì per chi cerca un momento di tregua, di ristoro, di protezione, di dialogo, forse per riprendere il filo di un discorso interrotto nella propria esistenza, e provare a ricostruire qualcosa che dia un senso anche alla sua storia odierna, dentro alla guerra. La fatica della strada, la paura, difendersi o attaccare, essere vittime o carnefici. Il peggior nemico è l’indifferenza, il non riuscire a uscire da una situazione che lentamente ti trascina verso il basso, ti sommerge fino a renderti invisibile, cerca di annullare la tua identità. La fame, il freddo, l’indigenza, lo star male, l’overdose, la siringa lasciata sulla strada, le insidie di chi manovra la tua vita, la riduzione in schiavitù, la clandestinità anche dentro quelli che sono sempre stati i tuoi confini. C’è una guerra accanto a noi, tra due mondi che convivono in un precario equilibrio, tra due città che però, lo sappiamo, sono e devono essere solo una città nella misura in cui sapremo farle incontrare, aprire canali di comunicazione, gettare ponti (anziché abbatterli…) . L’unità di strada con i suoi operatori cerca di essere un ponte, a metà strada, dentro alla strada e alle mille storie che ogni giorno si intrecciano e si incontrano.




Storie di ordinaria violenza

Quasi virale

Se mai dovessi fare due conti, sono certo di poter "vantare" nel palmares un lustro passato dietro le sbarre di questo o quel carcere e una decina di anni di strada.
La somma non fa di me un laureato, ma questo tipo di esperienze, dove sei vittima e carnefice, ti fa capire che la violenza non è legata solo ed esclusivamente a gesti cruenti, come l’immaginario collettivo vuole, anzi.
La violenza, quella che non si manifesta, fatta di sguardi pieni di pregiudizi, di porte chiuse in faccia – magari perchè sei un poveraccio o perchè sei nato più vicino all’equatore, perchè sei un disoccupato, sfigato senza casa, o perchè la casa non la vuoi e preferisci vivere su una roulotte come la cultura zingara ti ha insegnato – è molto peggio.
Parlo di quella violenza fatta di no sussurrati con il sorriso sulle labbra che straripa di gentilezza ma che in realtà non ti dà nessuna possibilità di scelta, nessuna via di scampo: o con noi o contro di noi.
La cosa che più preoccupa è che questo tipo di violenza non finisce sui giornali – anche perchè senza sangue non c’è audience – ma serpeggia negli animi – si fa per dire – dei benpensanti.
Si teorizza che sia dovuto a quello strano bisogno di un nemico che giustifichi la paura di affrontare tutto ciò che non si conosce, dalla diversa cultura, al diverso colore della pelle, al diverso modo di esprimere un malessere, come fa, tanto per intenderci, il tossicomane.
Se davvero, come credo, è la paura la scintilla promotrice della violenza, di questa violenza silenziosa, quasi virale, nella nostra società civile, sarebbe meglio tentare di conoscere quello che ci spaventa tanto, per poi magari scoprire che così spaventoso non è. Amen

Fra Untoria e Croce Bianca

Vico Untoria e Vico Croce Bianca sono punti nevralgici di una zona del centro storico particolarmente degradata, una sorta di "terra di nessuno" nel cuore della città, dove la violenza è l’unica dimensione che regola i rapporti. E’ una violenza esplosiva, generata dalla competizione per lo spaccio della droga, in cui emergono gruppi particolarmente aggressivi. Questi si stanno impadronendo della zona, con la complicità dei tre o quattro proprietari che concentrano nelle loro mani la quasi totalità dei beni immobiliari e realizzano profitti altissimi affittando abusivamente alloggi agli spacciatori.
Questa situazione di violenza continua (scippi, pestaggi, aggressioni), che esplode soprattutto nelle ore serali e notturne, crea notevole disagio agli abitanti storici della zona, tra cui vecchie prostitute, qualche famiglia di immigrati dal sud ancora residente qui dagli anni ’60 e molti travestiti che, a causa della pericolosità di queste strade, perdono progressivamente i loro clienti.
Lo scopo degli spacciatori appare piuttosto chiaro: indurre gli abitanti ad andarsene dalla zona, sgomberando così il campo da quella che è sentita come ultima forma di controllo sui loro traffici illeciti.

Frocio bastardo

E’ notte fonda, in via Mura delle Cappuccine, sopra la Questura, uno dei pochissimi luoghi all’aperto a Genova dove gli omosessuali possono incontrare altri omosessuali. Incrocio lo sguardo di coloro che girano in macchina, gli ultimi rimasti della serata.
Passa una macchina. A bordo ci sono quattro o cinque ragazzotti. Mi vedono, parcheggiano bruscamente trenta metri più in là. Ho un sussulto.
E’ insolito per le modalità di incontro omosessuale vedere più di una persona su di una macchina e una tale disinvoltura nel parcheggiarla. Le dinamiche sono usualmente più compite.
Scendono dalla macchina. Penso a tante storie di pestaggi raccontatemi. Ci siamo – mi dico. Incredulo mi rispondo: no è impossibile.
Devo fare qualcosa. Cammino a passo sostenuto in direzione opposta a loro, a bordo strada dove qualche macchina ancora passa, nel tentativo di rimanere il meno possibile isolato.
Ehi vieni qui – sono ad un metro da me sul marciapiede. Mi sento braccato. Cerco di non darlo a vedere. Faccio finta di non sentire.
Macchine non ne passano. Sono solo, in mezzo a quattro forsennati. Il quinto si fa avanti con la macchina, pronto a riprendersi gli amici una volta ultimato il raid.
Me ne ritrovo uno davanti. Siamo alla resa dei conti, il corpo a corpo.
Mi domanda qualcosa. Non riesco a sentire, a dire nulla. Mi impedisce di andare oltre. Mi colpisce alla testa. Stordendomi.
Vengo trascinato sul marciapiede e malmenato dai quattro con pugni, schiaffi e calci. Sono in ginocchio, mi riparo il viso con le mani. Sento attutite le loro voci che imprecano: – Frocio... bastardo...
Mi strappano il portafogli, si allenta la morsa. Raccolgo le forze rimaste e mi divincolo, scappo sanguinante e scioccato dall’altra parte della strada, a distanza di sicurezza. Lasciano il portafogli per terra indicandomelo e salgono in macchina. Sospiro di sollievo. Cerco di memorizzare il numero di targa, ma vedo tutto sfocato. Si allontanano.
Cessato il supplizio esplodo in una crisi di nervi. Lacrimo, ansimo, invoco l’aiuto di chi finalmente incontro in macchina e a piedi. Nessuno si ferma.
Ho la faccia tumefatta, il naso gonfio e rotto, le costole doloranti. Mi sono pisciato e cagato addosso.
Me ne accorgo solo a casa, dove velocemente mi sono rifugiato. Ad occhi sbarrati, rintanato sotto le coperte rivedo la scena infinite volte. Se non fossi stato lì quella sera... Se fossi scappato subito, sì ma dove?... Se avessi reagito... Se fossi stato più forte di loro... Se fosse intervenuto qualcuno... Le ipotesi si moltiplicano con i sensi di colpa.
Dodici ore dopo denuncio il fatto. Vengo spedito al primo piano della Questura dalla polizia scientifica. Mi vengono consegnati due raccoglitori con circa cinquemila foto di ragazzi pregiudicati d’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Su di una scrivania del pianerottolo al freddo, tra il via vai collettivo devo identificare i miei aggressori. Dopo alcune pagine i volti si assomigliano tutti, e tutti assomigliano ai miei aggressori. Restituisco il malloppo. Nessuno identificato – scrive l’agente che raccoglie la mia testimonianza. Poi commenta: – Ma quello è un postaccio – riferito al luogo del reato.

Donne e violenza

"La libertà è la cosa più importante per una persona. Nella vita il carcere mi ha cambiato completamente, più della strada; non tanto perchè ci sono le sbarre, ma perchè quando ti viene tolta la libertà, ti senti svuotata in tutti i sensi. Sentirsi così è ancora peggio della violenza." Sabina, 31 anni, sposata da tre, quando l’ho incontrata l’anno scorso nel carcere di Verona stava scontando alcuni anni per reati minori legati alla tossicodipendenza. Colpevole certo, come tutte le detenute che hanno popolato l’affresco che ho composto in ‘Donne dentro-detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano (Clessidra), ma allo stesso tempo vittima in un sistema che non consente a chi è dissonante e in difficoltà di avere un’altra chance. Sabina è diventata delinquente, tossica e quindi sieropositiva, assommando il massimo del punteggio della disperazione, grazie all’incontro in strada di quello che sarebbe stato il suo amore e la sua condanna. In strada ha conosciuto il ragazzo che ha sposato, dopo essere scappata da casa per sfuggire alle troppo amorevoli attenzioni del padre. In strada ha guadagnato i pochi soldi che le occorrevano prostituendosi, e poi, dopo l’incontro con il marito già tossico, qui ha iniziato a farsi con lui; in strada ha contratto il virus, e quindi sempre in strada è stata arrestata.
Come si fa a dire che la violenza è fuori dalle mura di casa, quando lei proprio da casa è scappata per sfuggirvi? Che cosa le fa più paura nel tornare fuori? "Dopo questo giro che ho fatto dentro alla violenza, in casa, in strada e nel carcere non c’è molto più da aver paura. Forse quello che spaventa è che la gente non dimentica. La detenuta ha sempre l’etichetta . Non so come si metterà per quanto riguarda le amicizie, ci vorrà tanto tempo per fare accettare la nuova Sabina, e la nuova vita. Nessuno ci crederà, avranno sempre delle riserve, ributtandoti prima o poi addosso il passato.
Quando sono depressa mi dico: il passato è passato, e chiuso. Dirmi questo è la mia corazza, la mia forza: se mi mettessi a piangere, se mi lasciassi andare non la finirei più, e allora cerco di ricordarmi che ce la faccio, che sono forte. Non voglio grandi cose per il mio futuro: invece di farmi le pere come facevo prima andrò a sciare, in vacanza e in discoteca, anche se sono un pò vecchiotta, per recuperare tutto quello che ho perso in questi anni. Il dialogo virtuale, con qualche elemento di sorpresa e di contraddittorio con Sabina lo riprende Betta, 50 anni, una andale-anda, come dice lei di se stessa, ovvero una che fa dentro/fuori con la galera, e che ormai ha una valigia sul marciapiede e una in cella, a Sollicciano, vicino a Firenze.
"Io non mi ricordo di essere mai stata se non sulla strada, e ho visto quasi tutto quello che di buone e di cattivo ti può capitare. Per una donna certo che c’è più violenza: a parte la questione della forza fisica, nel caso di aggressioni se non sei più che conosciuta nella zona dove batti sei alla mercè di tutti. Ma col passare del tempo una cosa l’ho vista cambiare. La gente non è più chiusa come una volta. Non c’è più la paura forte di chi esce dal carcere, e siccome si conosce molto poco di questo mondo più che la paura c’è curiosità, e quindi voglia anche di conoscere. Penso che una persona, a meno che non sia proprio gretta e cattiva, quando ci conosce e capisce cosa è successo, e perché, poi ci accetta. Dalla strada ho imparato una cosa importante: che siamo tutte uguali, straniere, italiane, tossiche, puttane. Nei 16 mesi di comunità, prima di venire qui, mi sono resa conto che giudicavo di più le persone, e invece mi sono accorta che non c’è differenza, non c’è la razza, il colore, niente che giustifichi le discriminazioni e i giudizi a priori, la violenza .
E’ un grande insegnamento, che mi è servito molto, mi ha fatto bene: ho imparato che mettersi su un piedistallo, nascondersi dietro ad una maschera non serve. Che nulla vale la pena di fare che ti porti qui, se questo significa perdere tempo e perdere così la vita del mio bambino, che ha solo quattro anni E poi ho imparato ad aprirmi, a dire i miei sentimenti. ". In accordo con gli psicologi Betta ha deciso che darà degli accenni graduali sul perché deve andare a dormire in carcere, la sera, invece di tornare a casa con suo figlio. Ma è difficile mentire ai piccoli. "Credo che abbia capito: quando gli telefono mi chiede: Ma dove sei, mamma, lì c’è la tv? Appena uscirò definitivamente gli dirò la verità, anche per evitare che qualcuno gliela racconti prima, e magari male. E riprenderemo da dove abbiamo lasciato".
(Tratto da Monica Lanfranco, Donne dentro. Detenute e agenti di polizia penitenziaria raccontano, La Clessidra editrice, aprile 1998, pagg. 124)

Barbara

Barbara. Dieci anni fa. Incontrata per caso.
Barbara: vestitini corti, gonne strette.
Commessa di negozio. Senza genitori: sono morti.
Barbara giovane, bella ragazza.
Barbara ingenua. Non ti fermare qui.
Barbara: la strada, la droga. Lui ti picchia sempre, ogni notte: vuole i soldi.
Barbara e i clienti: anche loro ti picchiano, ti bruciano con i ferri roventi, ti torturano. E la tua giovinezza sparisce. Ti si vede dai segni lasciati sul tuo corpo, nella tua mente.

Poi la paresi. Non riesci più a parlare, a comunicare. Trafile di dottori, ospedali, ricoveri. Ti vogliono curare, guarire, non sanno che tu hai bisogno di guarire dentro.

Barbara. Capodanno ’95. Ti vedo. Sempre gonne strette e vestitini corti. Truccata. Non sembri manco più tu. Rivedo la tua storia… la nostra storia, nelle cicatrici che ci hanno marchiato.
Barbara sta con un vecchio, prigioniera, ricattata. – Cosa vuoi? Ti do da mangiare, da dormire…
Non può scappare, sedata da mille Tavor e Roipnol, dono del vecchio.
Il vecchio è buono. Barbara è ubbidiente. Lascia fare. Bottiglie e candele si infilano in ogni buco del suo corpo.
– Ti do da mangiare, un posto dove dormire…
Barbara, che fare?

Adesso sto male.

Io, carne di strada

Tutte le volte che la incontriamo, con l’Unità di strada, ripete la stessa frase: – Ancora un mese e torno a casa – . Sono quattro anni che lo dice. Sono quattro anni che batte sullo stesso marciapiede. Viene spesso derubata.
Ogni volta che le succede qualcosa di brutto s’avvicina un po’ di più all’orlo del marciapiede, il più vicino possibile alla luce del lampione.
Ha ventiquattro anni, ma ne dimostra venti. Dice di chiamarsi Hanna con l’acca e di venire da un paesino della Baviera, sbattuta fuori casa dai suoi. Quando parla, in cattivo italiano, ripete più volte la stessa frase, per farsi capire meglio. Si aiuta con i gesti e stasera sputa in continuazione per terra, più del solito.
E’ la prima volta che sale sul pulmino: ci ha sempre sorriso ma senza darci confidenza, per tre anni di seguito. Stasera è rimasta con noi più di un’ora. E’ tumefatta, gli zigomi sono pieni di piccole abrasioni e stringe con le dita della mano sinistra la zona della milza.
– Hanna, è tanto che non ti si vede, sei tornata a casa tua?
– Magari. Sono stata in ospedale. Ho avuto tanto male. Mi hanno caricato in macchina in due e mi hanno portato vicino a Tortona in un bosco. Ero terrorizzata. Mi hanno picchiato e fatto spogliare. E’ allora che ho provato un gelo che mi ha paralizzato. In quella radura sono usciti altri due giovani che ridevano forte. Mi hanno legato le mani e poi...
Ho dovuto fare tutto quello che volevano. Uno aveva un coltello da pesca subacquea, di quelli che squarciano le carni. Voleva che aprissi la bocca. Mi hanno preso a pugni in faccia e a calci. Dappertutto. Ho iniziato a gridare e quello col coltello me l’ha infilato tra i denti. Facendo leva me l’ha infilato in gola...
Hanna fa segno fino all’attaccatura del collo.
– Mi sentivo soffocare. Non mi potevo muovere con la testa, mentre sotto mi facevano tutto quello che volevano. Piangevo e se mi divincolavo sentivo la gola lacerarsi.
Mi hanno ancora pestato, fracassato tutte le ossa del naso, della mascella, due denti e gli zigomi. Mi hanno rotto le costole e un braccio. Mi hanno usato, mi hanno sporcato tanto...
Mi sono trascinata nuda e sanguinante fino alla strada. Un tizio mi ha soccorso e portato all’ospedale di Pavia. Ci sono rimasta ventotto giorni. Ecco perché non mi avete più visto. Ma lavoro ancora un mese e torno a casa, da mia mamma e da mio papà.




Inchiesta:botte da orbi

"Vi arrivano molte segnalazioni di violenze sulla strada a Genova? E in questi casi che fate? Avete un ufficio o una sezione apposita?" Abbiamo ripetuto queste domande a una serie di associazioni, sindacati, gruppi che sono in vario modo in contatto con i soggetti più emarginati o/e più deboli: immigrati, tossicodipendenti, donne, minori, senza tetto.
A prima vista l’impressione è stata di aver sbagliato le domande o la città in cui farle. La questione della violenza sulla gente che sta in strada non sembra essere né visibile né prioritaria.

"La prima impressione – ci ribadisce Saleh, responsabile della sezione immigrati CGIL– è che non ci sia molta violenza a Genova; è una città in cui gli immigrati stanno meglio che in altri posti, grazie anche al lavoro svolto dalle associazioni negli ultimi anni. Non ci sono atti di violenza per strada o, per lo meno, la nostra gente non ne racconta. Certo, nel caso delle prostitute o dei minori è diverso, la paura impedisce di dire. Ma in generale direi che atti di razzismo non ce ne sono più. Oggi, poi, anche gli irregolari quando subiscono un torto da un privato, specie per le questioni di lavoro, richiedono il nostro aiuto e denunciano".
La CGIL immigrati, oltre al lavoro sindacale, risponde a qualunque bisogno di un cittadino immigrato. Approfondiamo la questione andando a parlare anche con la responsabile del Dipartimento Politiche Sociali del sindacato, Paola Pierantoni. "No, non abbiamo un ufficio specifico che si occupi di violenze – ci spiega . – E’ capitato che ci siano state segnalate aggressioni. In questi casi indirizziamo le persone all’Udi, al Distretto Sociale o al Tribunale dei minori".
Anche alla UIL e alla CISL non esiste una sezione apposita sulla violenza che garantisca sostegno legale o psicologico. Per gli immigrati esiste un ufficio legale gestito dalla Caritas-Auxilium e ospitato al Centro Servizi Integrato di via Milano ogni martedì pomeriggio. L’ufficio si occupa di problemi di qualsiasi tipo; tuttavia, secondo Hassan Assaad del Centro Servizi, arriva ben poco a loro. "Non c’è coscienza di denunciare. Il problema è come tutelare l’immigrato senza permesso, che quindi ha paura di esporsi. Le nigeriane quando vanno in ospedale scappano sempre prima della fine prevista per paura di essere scoperte dalla polizia. Per altro abbiamo avuto anche due casi di immigrati che hanno denunciato le forze dell’ordine. Servirebbe un’assistenza legale che rispettasse l’anonimato".
Rocìo Acosta, della CISL immigrati, racconta di una ragazza sudamericana a cui hanno sputato in faccia mentre aspettava l’autobus; ma sottolinea che in genere di questi argomenti non si parla.
Dunque non se ne parla; ma per Massimo Costantini dell’Ambulatorio Città Aperta le ferite si vedono.
"Da noi vengono dopo essersi andati a medicare al Pronto Soccorso – ci spiega – sono per lo più vittime di pestaggi o accoltellamenti. Infatti, dopo il primo momento d’urgenza, di tamponamento, per loro curasi diventa un problema, se non sono iscritti al sistema sanitario nazionale. E’ vero che la legge attuale dovrebbe garantire a tutti le cure urgenti ed essenziali, quindi anche, ad esempio, farsi togliere i punti. Ma dal momento che serve la richiesta della visita medica, per chi è senza permesso i problemi restano".
All’Ambulatorio Città Aperta è ospitato, il martedì sera, un ufficio di consulenza legale. La domanda di assistenza legale è infatti molto alta.
In questo quadro, la violenza sulle donne è un’appendice sommersa, relegata o alle pareti domestiche o alle prostitute. Quasi nessuno sa, racconta o sembra occuparsene.
Una mediatrice culturale ci dice che è inutile provare a far parlare le ragazze nigeriane che battono. Secondo un’altra mediatrice, le violenze in strada alle nigeriane sono poche e il problema è all’interno della loro comunità.
"La violenza maggiore arriva dai clienti – dice Liana Prezioso operatrice dell’unità di strada della LILA – Noi cerchiamo di fare prevenzione, spieghiamo come evitare le situazioni a rischio. Poi c’è anche la violenza fra concorrenti, la lotta per il posto, e in questo caso facciamo un lavoro di mediazione, anche con le forze dell’ordine. Forse ultimamente le nigeriane tendono a denunciare di più; ma la denuncia spesso non è risolutiva dei loro problemi".
Per Angela Burlando, della Questura di Genova, la situazione delle prostitute è migliorata, grazie anche all’intervento deciso delle forze dell’ordine.
"Per le prostitute le violenze sono all’ordine del giorno. Da anni lavoriamo per instaurare un rapporto di fiducia con loro – racconta Alessandra Bucci della Buon Costume – e ormai le denunce sono numerose. Nel caso delle prostitute nigeriane, siamo riusciti a spezzare l’omertà, anche grazie all’operazione Barbie nera (così chiamata in seguito al ritrovamento di una bambola voo-doo) che, nel novembre ’98, ha portato all’arresto di vari protettori accusati di schiavismo sessuale. Certo, noi lavoriamo con pochi mezzi, attraverso la buona volontà dei singoli. E resta sempre il problema del recupero di queste donne, che non può essere un problema di polizia".
Da quel che si capisce, quando si parla genericamente di violenza sulle donne, l’operazione è di inviare ai Servizi o all’UDI. All’Unione Donne Italiane si trova assistenza psicologica da parte di operatrici preparate e anche una consulenza legale gratuita. Tuttavia la Presidente dell’Udi, Ada Caldano, ci spiega che i casi di violenza in strada sono rari; a loro arrivano per lo più donne che scappano da violenze all’interno delle pareti domestiche.
Sui minori stranieri che stanno sulla strada è più facile raccogliere notizie; il che non significa che ci siano più soggetti che se ne occupano.
Alla Croce Rossa esiste un servizio telefonico SOS bambino (tel. 010 383636) per segnalazioni e interventi su bambini maltrattati; oltre a questo, l’associazione dispone di un Centro di ospitalità (tel. 010 3760121) per mamme e bambini che sfuggono da situazioni violente o a rischio.
Ma un ragazzo immigrato, magari senza permesso, che subisca episodi di violenza o di sfruttamento – chiediamo a Daniela Galleano e Barbara Introcaso operatrici di strada – a chi si rivolge?
"Questi ragazzi hanno scarsa consapevolezza dei loro diritti; o meglio, sono consapevoli di non avere diritti, né potere contrattuale, specie se il padrone è il padre o uno pseudo-parente, il cosiddetto zio. Come nel caso delle prostitute, diventa difficile fare una denuncia. Ciò vuol dire infatti andare in Questura, e il 90% dei ragazzi di strada non vogliono avere un rapporto con la giustizia, che percepiscono come persecutoria. Se si trova di sera un ragazzino che non ha un posto dove andare a dormire, in genere si chiama il Massoero, dove l’assistente sociale di turno chiama a sua volta la Questura per fare un affido. A quel punto il ragazzino è rinviato ai Servizi e, nella migliore delle ipotesi, finisce in una comunità alloggio. Quando non c’è il rimpatrio assistito".
E’ stato calcolato che, nell’autunno del ’98, siano stati accolti nelle strutture genovesi un centinaio di ragazzini stranieri, su una stima di duemila in tutto il Comune.
Di questi molti hanno una famiglia, sono inseriti a scuola e nelle associazioni. Ma, tra loro, c’è anche chi quest’estate dormiva nei container del porto.
"Sulla strada ci sono soprattutto ragazzi marocchini e albanesi. Gli episodi di violenza fisica e psicologica sono moltissimi. Frequenti sono anche gli atti di autolesionismo; con le lattine si tagliano le braccia. E’ un’esibizione di forza, ma anche una riproduzione delle dinamiche punitive. A volte sono temporaneamente ricoverati in ospedale, poi tornano in strada. Sono ragazzi-fantasma".

Criminalità/immigrazione: un binomio tanto facile quanto ingiusto.

Nella graduatoria provinciale sono 15 l le provincie, tutte del centro-nord (Torino, Milano, Verona, Venezia, Gorizia, Trieste, Imperia, Savona, Genova, Bologna, Ravenna, Pistoia, Firenze, Roma, Rimini) in cui ad elevati livelli di benessere si associano migliori opportunità di lavoro, più alti tassi di criminalità e una grande concentrazione di extracomunitari (3,3% rispetto all’1,8% della media del paese), regolari e non, quindi le condizioni ideali per delinquere: eppure la percentuale di immigrati denunciati, indagati o segnalati sul totale degli immigrati (4,5%) è sostanzialmente identica a quella rilevata nelle altre provincie con diverse caratteristiche (4,7%) e quella della media in Italia (4,3%). Ma resta troppo facile vedere nel "diverso" un "pericolo": nella percezione collettiva quello dell’immigrazione è il quarto problema nazionale (26,6%), dopo la disoccupazione (63,9%), la mafia (44,7%) e la droga (26,8%); e il 48,3% degli italiani ritiene che una futura convivenza multietnica nel nostro paese sarebbe una fonte di conflitto sociale.
Estratto dalla ricerca del CENSIS presentata a Roma il 13 aprile 1999




altri sguardi: i ragazzi della II G del Liceo Cassini

I violenti siamo noi, non le nostre parole

Negro: dal latino niger, chi o che ha la pelle nera per razza.
Nero: dal latino niger, assenza di colore.
Queste due parole sono sinonimi, hanno la stessa origine, eppure il vocabolario attribuisce loro due significati distinti.
La violenza nelle parole inizia dal significato che noi gli diamo, siamo noi a decidere che accento dare alla parola, che importanza dare loro nei nostri discorsi, siamo noi ad esprimerci violentemente. Le parole non hanno colpe, puoi decidere di "aumentargli lo stipendio" per dargli il significato che più ti serve: per esempio " stupido" è il contrario di "intelligente" non è una parola violenta, ma se detta con cattiveria o con livore può diventarlo. Siamo noi quindi a fare questa violenza; i nostri sentimenti, le nostre idee cambiano il ruolo alle parole.
Violenza nelle parole in famiglia, fra amici, anche fra estranei. Spesso non ci accorgiamo di essere portatori di paura, tristezza, rabbia, confusione, forse perché questa delle parole è la violenza che più agisce nello spirito e che quindi è meno dichiarata. Spesso la mascheriamo dietro uno "Stavo scherzando" oppure giustifichiamo il nostro comportamento assicurando che le parole sono "scappate" dalla nostra bocca, ci sono sfuggite e quasi non ce ne siamo accorti.
Per esprimere un senso di violenza con le parole non ci si aiuta solo con queste, ma nel dialogo diretto anche con le espressioni somatiche e soprattutto con il tono della voce. Perciò dimostrare questa violenza attraverso il mezzo scritto è molto più difficile, si possono creare fraintendimenti, e allora si deve inscrivere la parola in un certo contesto.
Violenza della quotidianità, la più comune, la più diffusa, la più segreta.
Basta prendere un giornale e leggere fra le parole degli articoli "TUNISINO ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA", ma non si legge mai "ITALIANO ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA", gli italiani sono sempre persone, giovani, ragazzi, non è mai importante la loro nazionalità, ma se si tratta di uno "straniero" diventa per molti necessario inserirlo in un contesto diverso, per imprimere nella memoria dei lettori che quello spacciatore era tunisino e che indurrà per associazione di idee che tutti i tunisini sono spacciatori.
Ecco che la violenza diventa sottile, impercettibile, ma sempre più profonda, la sua pericolosità aumenta con il suo essere nascosta.
Questa violenza non è punibile: sta a noi, storici del presente e creatori del futuro dare alle parole il peso che si meritano.

Campo di calcio o campo di battaglia?

Il calcio è lo sport più seguito, ma forse quello più violento. Chi, guardando una comune partita di calcio, non si accorgerebbe dell’atmosfera violenta che può crearsi in uno stadio?
Giocatori che si "aggrediscono" per un fallo non concesso o una qualsiasi decisione del direttore di gara secondo loro ingiusta, spintoni qua e la, spesso vere e proprie risse nel rettangolo di gioco: questa è una delle tante facce del calcio moderno.
[...] Tutte quelle reazioni che si susseguono in campo sembrano riflettersi sugli spalti, dove però non c’è un arbitro a ricomporre immediatamente, o quasi, la situazione.
[...] Ma la violenza non è solo morte o comunque solo sangue.
Qualcuno ha mai osservato gli striscioni che vengono appesi da una parte all’altra dello stadio?
[...] Un’altra manifestazione di violenza possono essere i banali cori dei tifosi, difficilmente comprensibili attraverso lo schermo del televisore, che fanno da sfondo all’ambiente stadio e che sono uno dei modi principali con cui il tifoso fa sentire che c’è.
[...] Per fortuna il calcio non è solo questo: talvolta ritorna ad essere ciò che era quando è stato inventato, ossia un gioco con l’unico scopo di divertire il pubblico.
[...] Ma nonostante tutto il gioco del calcio è, e sempre sarà, uno sport violento.

E’ violenza lasciare un figlio abbandonato a se stesso?

Il fatto che i genitori siano permissivi potrebbe sembrare positivo. In realtà questo modo di trattare il ragazzo è molto negativo: egli infatti potrebbe compensare l’affetto negato rifugiandosi in compagnie sbagliate affrontando i tipici problemi dell’adolescenza da solo, senza un aiuto o una guida.
[...] I bambini devono essere seguiti e aiutati dai genitori all’interno dell’ambito scolastico e nell’inserimento all’interno della comunità, se questo non accade rimangono confusi ed esclusi.
I figli spesso pensano che i propri genitori siano troppo severi, ma questo atteggiamento è fondamentale per l’educazione e la crescita del figlio.

La violenza sullo schermo

La violenza è una realtà concreta, perciò anche nella televisione, il cui compito spesso è quello di rispecchiare la realtà, troviamo immagini violente.
Non si può affermare che la violenza in televisione sia un elemento del tutto diseducativo, poiché molto dipende dall’emotività e dalla mentalità dello spettatore, che, davanti ad immagini forti, può rimanere scioccato, cogliere un insegnamento, o restare del tutto indifferente.
Il problema è come ed in quale contesto certe immagini ci vengono proposte, e se l’eventuale influenza negativa che trasmettono resti sul singolo o si ripercuota sulla società. Gli individui che di più subiscono il bombardamento della televisione sono i bambini, i quali spesso sono abbandonati ore ed ore davanti a quello scatolone che diventa il loro migliore amico. Anche programmi banali come i cartoni animati, che dovrebbero stimolare la fantasia oltre che divertire, in alcuni casi si presentano crudi e violenti.
Ma non si possono considerare violenza anche quelle interruzioni di cinque minuti ogni dieci che ci fanno perdere il filo, e ci mettono davanti ad immagini che non c’entrano niente con quello che stiamo guardando? Ci infastidiscono, ci annoiano, forse più delle immagini violente dei telefilm.
E poi come andrebbe avanti la televisione senza le immagini violente? Noi le guardiamo, il sistema funziona, la violenza fa audience. Per questo continuano a propinarcela. Finchè non ci decideremo a cambiare canale o televisione.




Sotto la lente La casa della speranza

Da otto anni in Vico Untoria, nel cuore del centro storico più degradato, esiste la Casa della Speranza, un dormitorio per donne italiane senza dimora.
E’ nato per iniziativa delle suore del Movimento missionario contemplativo di Padre de Foucauld che, rispondendo all’invito della parrocchia di S. Siro di presentare i problemi della zona in occasione della visita pastorale del cardinale Canestri (allora vescovo di Genova), individuarono quello delle donne sulla strada come particolarmente urgente, anche perché tradizionalmente trascurato.
Allora l’urgenza era rappresentata soprattutto da donne tossicodipendenti, spesso in AIDS conclamato. Prime ospiti della Casa sono state infatti alcune di loro, conosciute nei reparti infettivi degli ospedali cittadini, meta delle visite caritatevoli delle suore.
Da un anno però la situazione è cambiata: alcolismo e problemi psichiatrici caratterizzano la maggior parte delle donne attualmente ospitate. Si tratta di persone dall’età media di quarant’anni, che giungono qua per interessamento della USL da cui sono seguite. Ciò dimostra come in questi anni la Casa sia diventata un punto di riferimento anche per il servizio pubblico, senza per questo mutare la sua natura, ma rimanendo fedele a quel concetto di volontariato "puro" da cui è nata.
Orgogliose della loro libertà di azione, le suore rifiutano infatti qualunque prospettiva di convenzione con gli enti locali.
In un alloggio messo a disposizione dalla parrocchia di S. Siro, in numero di quattro alla volta, a rotazione, organizzano con le loro sole forze il dormitorio: una cappella di preghiera, otto posti letto, adeguati servizi distribuiti su due piani, in ambienti molto modesti, ma curati al meglio e pulitissimi. Poche e chiare le regole: si entra tra le 20 e le 20,30 e si esce alle 8 del mattino; è consentito un piccolo bagaglio; si deve curare l’igiene personale e dei locali; la giornata si chiude con la preghiera.
Pochi i requisiti per entrare, richiesti soltanto per evitare problemi per i quali le suore non si sentono attrezzate sufficientemente: la nazionalità italiana e la capacità di stare insieme senza creare disturbo.
Un contatto costante è tenuto con il Massoero e S. Marcellino, che ne hanno tratto stimolo per aprirsi a loro volta maggiormente alle donne.
L’attività delle suore non si esaurisce però solo nella conduzione del dormitorio; ad essa è dedicata la mattina, spesa solitamente a sbrigare commissioni per le ospiti. Il pomeriggio è invece dedicato alle visite, per parlare ad un’umanità varia e sofferente, quasi sempre emarginata: anziani della zona, vecchie prostitute o travestiti, ammalati tra mura fatiscenti o chiusi in qualche ospizio, ricoverati in ospedale senza nessuno su cui poter contare, in gran parte tossicodipendenti affetti da AIDS.
Si tratta comunque di due attività complementari. Nella Casa della Speranza, infatti, alle persone accolte non si vuol dare solo un letto, ma un sostegno e un’occasione per "camminare". Si ha però la netta sensazione che questa occasione sia affidata alla qualità delle relazioni che si stabiliscono con le ospiti, piuttosto che a preordinati e sofisticati programmi di recupero.
Momento privilegiato delle relazioni è la sera: Suor Teresa, la veterana del gruppo, parla con emozione della ricchezza di questo momento, in cui s’incrociano sconforto e consolazione, serenità e angoscia, abbattimento e speranza…




intervista violenza di strada

Schiavismo sessuale, lavoro nero minorile, reati a danno di tossicodipendenti, immigrati, prostitute, omosessuali, ecc.: la strada è teatro di violenze che spesso non trovano giustizia e che difficilmente arrivano sui tavoli dei tribunali. Una violenza sommersa, difficilmente quantificabile. Ne parliamo con Anna Ivaldi e Valeria Fazio rispettivamente GIP e PM presso il tribunale di Genova.

La strada è spesso teatro di una violenza sommersa a danno di persone che per vari motivi – culturali, economici, legali ecc. – hanno più difficoltà a far valere i propri diritti: immigrati, tossicodipendenti, omosessuali, prostitute, minori. Una violenza sommersa che spesso non trova giustizia. Voi magistrati che informazioni avete e come vi muovete rispetto a questo fenomeno?

Anna Ivaldi
Del fatto che ci sia un sommerso abbiamo coscienza solo come cittadini.
Il sommerso per noi è proprio sommerso, è una realtà che ignoriamo, perché possiamo muoverci solo su denuncia o querela; in ogni caso deve esserci una persona che dichiari il reato.
Sono le violenze nei confronti delle prostitute che emergono di più, forse perché la violenza in questi casi è così forte da superare tutte le barriere. Una violenza che spesso è fisica, ma non solo. Molte prostitute sono in condizioni che si possono definire anche giuridicamente di schiavitù, reato in cui non ci si imbatteva più da tempo.

Valeria Fazio
Noi lavoriamo su denuncia o querela. Il problema è che ci vuole l’iniziativa della vittima. Se la persona ha delle difficoltà a denunciare, a noi non arriva niente.
Faccio un esempio: c’è una norma nuova – art. 16 legge 40 del 1998 – che permette di rilasciare alle prostitute straniere un permesso di soggiorno per un periodo di sei mesi rinnovabile di altri sei o più per motivi di giustizia.
La norma non riguarda solo la prostituzione ma anche lo sfruttamento dei minori o altri casi in cui ci sia concreto pericolo per l’incolumità della vittima. Le condizioni per applicare questa norma sono però che la vittima abbia tentato di sottrarsi alla situazione in cui si trova o che renda dichiarazioni nel procedimento. Prima di questa norma il permesso temporaneo di sei mesi era dato per ragioni di giustizia solo se c’erano dei testimoni. Non è molto, ma c’è un progresso: può essere la strada di superare l’handicap di essere entrati illegalmente.
I casi del genere comunque non sono frequenti – ne capita più o meno uno all’anno – perché, come ho detto, per accedere al tribunale ci vuole un’autonoma capacità di iniziativa.

Autori di violenze possono anche essere coloro che dovrebbero invece reprimerle. Raramente affiorano casi del genere, ma sono molte di più le segnalazioni di abusi o reati che si possono raccogliere sulla strada.
Cosa fate in questi casi?

Anna Ivaldi
E’ difficile stabilire quando si è di fronte ad un vero abuso delle forze dell’ordine e quando invece a un’accusa falsa. Noi tentiamo di fare indagini anche nei confronti di appartenenti alle forze dell’ordine. A volte sono emersi casi di illegalità. Sono, comunque, difficili da dimostrare, anche quando arrivano a noi, perché per lo più non ci sono testimoni.

Valeria Fazio
Vale comunque sempre la pena denunciare.
Secondo la mia esperienza, i soprusi avvengono quando la professionalità dell’operatore è minore: si è violenti quando si ha paura o si vuole dimostrare qualcosa. Per fare la denuncia, comunque, non è necessario passare per la polizia: noi procediamo autonomamente. Si può venire direttamente in Procura.
Una delle remore a denunciare abusi è la paura di essere a nostra volta denunciati per calunnia. Ma anche l’accusa di calunnia deve essere provata. Su questo, quindi, si può stare tranquilli.
Diverso è arrivare a fare giustizia. Questo è più difficile. L’indagine però serve in tutti i casi, anche se non porta all’accertamento del reato, perché è utile che si sappia che c’è un controllo, che qualcuno fa degli accertamenti, delle indagini anche su come lavorano le forze dell’ordine. Denunciare è servito anche in passato perché certi tipi di soprusi stile anni ‘70 sono venuti meno. Oggi le forze dell’ordine sono cambiate molto: gli operatori sono più preparati. Ci sono, inoltre, più garanzie formali, come le regole sugli arresti.
Certo, è cambiata la composizione dei soggetti deboli: prima erano cittadini italiani, oggi sono prevalentemente stranieri, e sono sempre più deboli. Per esempio, se uno straniero sparisce, nessuno se ne accorge.

Sulla strada raccogliamo molte segnalazioni di soprusi.
Che cosa se ne può fare? E’ utile un osservatorio sulla violenza, una sorta di tavolo che metta insieme soggetti diversi che a vario titolo ruotano o potrebbero ruotare intorno al problema?

Anna Ivaldi
L’ipotesi dell’osservatorio potrebbe essere interessante.
Noi, comunque, per muoverci, dobbiamo avere un nome e un cognome. Una persona reperibile. Senza nomi non possiamo fare niente.
Ed è importante la tempestività: i fatti devono essere recenti. Noi possiamo lavorare solo su denunce accertabili e quindi recenti.
Lavorare su materiale più sfumato è faccenda delicata.

Valeria Fazio
Quando si parla di soprusi è bene avere casi specifici su cui indagare.
Quanto all’osservatorio sulla violenza ne vedrei due funzioni: una di sensibilizzazione, l’altra di iniziativa legale.
Sotto il profilo dei processi, si può fare riferimento al modello usato contro l’usura: mettere insieme più segnalazioni e farle emergere contemporaneamente.
Bisognerebbe studiare l’esperienza di questi gruppi contro l’usura che hanno lavorato soprattutto al sud: hanno raccolto denunce e sono arrivati a qualche risultato.
Il fatto che ci siano dieci persone che denunciano lo stesso reato serve per le indagini e tutela il singolo che denuncia.

Forse sarebbe opportuno che questi due momenti, quello della sensibilizzazione e quello giudiziario si parlassero.

Anna Ivaldi
Su questo ho qualche dubbio. Noi non dobbiamo farci influenzare nel nostro lavoro. Per il giudice è pericoloso.




opinioni

La violenza nelle nostre strade è forse una realtà sempre più sommersa, che tende a coinvolgere, nel ruolo di attori ma anche di vittime, soprattutto i soggetti deboli ed emarginati. Sull’argomento intervengono Andrea Gallo (responsabile della Comunità di San Benedetto al Porto), Monica Lanfranco (direttora del trimestrale femminista Marea) e Marco Bouchard (giudice del Tribunale dei minori di Torino).

Violenza e non-violenza

Don Gallo
Oggi esiste un nuovo tipo di violenza, di fascismo, ed è la consacrazione del principio della disuguaglianza.
Per i colonizzatori che andarono in America gli indigeni non avevano anima perché non avevano armi. Oggi l’immigrato non ha diritti perché non ha documenti.
Contro la violenza della disuguaglianza bisogna recuperare le "virtù povere", ad esempio la mitezza, la non-violenza. Il cristianesimo fornisce molti esempi di queste "virtù povere" da Gesù, la "pecora mansueta" che va al macello della malvagità umana. Eppure nella Chiesa la non-violenza non è ancora una dottrina accertata. Il Catechismo romano lascia ancora qualche spazio, troppo spazio alla guerra "giusta" e alla pena di morte.
E invece bisogna tornare a Gandhi, alla non-violenza assoluta. Ma per affrontare efficacemente la violenza bisogna rimuoverne le cause strutturali, agire anche sulla violenza istituzionale che produce continuamente obblighi, divieti, esclusioni, recinti che per il debole e l’inerme sono quello che per il disabile sono le barriere architettoniche.

La violenza sulle donne

Monica Lanfranco
A partire dagli anni ’70, le donne hanno parlato a viso aperto di stupro (allora si diceva che si trattava della violenza più evidente, ma che ben altre violenze non viste avvenivano dentro le mura di casa). Poi la consapevolezza è aumentata e si è passate a nominare ed indicare tutte le altre violenze: la discriminazione nel mondo del lavoro; l’assenza di pari diritti che consentano lo sviluppo piena delle potenzialità di ciascuna, e poi l’ultima violenza, generata dalla globalizzazione, quella della schiavitù di donne e bambine provenienti da altri paesi che approdano in Italia per salvarsi dalla fame e dalla guerra e in molte vengono gettate sulla strada a prostituirsi.

I dodici articoli

Don Gallo
La non-violenza non è rassegnazione; lascia spazio all’indignazione ed alla ribellione, attraverso i mezzi più opportuni.
L’obiettivo deve dunque essere quello di eliminare la violenza strutturale, stando attenti a non cadere nella trappola di rendere semplicemente più buono il proprio cuore.
Certo non si può pensare la città come l’Eden. La città è un luogo di contraddizioni e lacerazioni che devono essere affrontate. L’obiettivo è un equilibrio fra diritti e sicurezza, ma non è calpestando i diritti che si va verso la sicurezza. E tutti siamo responsabili, nel senso che tutti dobbiamo farci operatori, costruttori di pace. C’è una buona guida per questo: i primi dodici articoli della Costituzione Italiana.

Internet

Monica Lanfranco
Della violenza si torna a parlare, tra le donne, magari non nelle piazze ma con uguale passione attraverso Internet. Ne discutono le iscritte alla lista ‘femminismi’, creata dalle due riviste Marea e Il paese delle donne, che attraverso i siti www.marea.it e www.womenews.net consentono gratuitamente di entrare in lista. Qui il dibattito è aperto e particolarmente attivo proprio sul tema, spinoso e delicato, della scelta e dell’obbligo nell’attività di chi si trova sulla strada. Scelta libera, dicono le italiane con Carla Corso; violenza e terrore, raccontano le giovani albanesi e nigeriane vittime della tratta che le getta in strada, alla stregua di cose da usare. Un lavoro come un altro, incalzano le prime, un destino segnato da soprusi e morte, affermano le altre. E in rete il dibattito si accende quando, inevitabilmente, si tocca il tema della sessualità. Se non ci fosse una richiesta da parte degli uomini non ci sarebbe prostituzione, non ci sarebbe violenza. Ma cosa dire alle donne che, invece, sostengono la vendita di sesso come libera scelta, migliore di quella di lavorare in ufficio con tempi e salario regolato da altri? La libertà delle donne di gestire il corpo, e le sue tante verità, genera (per fortuna) ancora discussioni e accende gli animi.

Altra giustizia

Marco Bouchard
A Torino abbiamo sperimentato forme di "altra giustizia". Si tratta in particolare di due tipi di esperienze: coi minorenni e con gli adulti.
Quella coi minori si basa sull’idea di cercare di stabilire in tempi brevi un contatto fra il minore autore di violenze e le sue vittime: se entrambi sono d’accordo, si capisce. A Torino quest’esperienza, dopo una prima fase sperimentale, si è ormai consolidata; c’è un patto fra Comune, autorità giudiziaria minorile e Ministero di Grazia e Giustizia per verificare la possibilità di risposte diverse rispetto a quella sanzionatoria che comunque spesso delude le aspettative della vittima.
Da una parte, dunque, si sottolinea il principio di responsabilità del ragazzo; dall’altra, si cerca di dare una diversa soddisfazione alla vittima. E’ un’esperienza di "altra giustizia" che ha avuto molti riscontri positivi e che ha fatto scuola anche in altre città.
Per quanto riguarda l’esperienza con gli adulti, pensiamo che oggi le forze dell’ordine siano al crocevia di esigenze molteplici, da gestire in modo flessibile e articolato.
La nostra tesi è che molte notizie di reato che arrivano alle forze dell’ordine possono essere gestite rapidamente attraverso la conciliazione, mentre altre avanzano istanze diverse rispetto a quella punitiva. Un esempio è il caso della donna che ha dei conflitti col marito e che ricerca dalla giustizia una risoluzione di questi conflitti piuttosto che la carcerazione del marito.
Di qui la necessità di fornire strumenti adeguati alle forze dell’ordine, attraverso corsi di formazione su come affrontare l’alcolismo, la malattia mentale ecc., per dirimere i conflitti. L’idea è di formare un operatore di polizia che accanto alla repressione abbia compiti di prevenzione in senso positivo, che sia insomma un produttore di sicurezza.
C’è poi una terza esperienza che riguarda la difesa dei più deboli. Si tratta di una sezione di polizia giudiziaria per reati a danno di tali soggetti e di un pool di magistrati che si occupano specificamente di minori, donne e anziani. Naturalmente la tutela del minore maltrattato diventa spesso tutela del minore straniero, dalla ragazzina cinese che lavora in qualche laboratorio clandestino al ragazzo maghrebino che vende fiori.




Dritte & Diritti Fasce deboli: le leggi

Ricordiamo qui alcune leggi che tutelano i diritti delle cosiddette "fasce deboli".

Contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa
Con il Decreto-Legge n. 122 (1) del 26 Aprile 1993 le pene per i reati di discriminazione razziale, etnica e religiosa sono stati inasprite.
I reati sono quelli indicati dall’articolo 3 della legge del 13 Ottobre 1975, n. 654, e dalla legge n. 962 de 9 ottobre 1967.
Sono previste come pene aggiuntive le seguenti sanzioni accessorie:
- L’obbligo di prestare attività non retribuita con finalità sociali o di pubblica utilità (per non più di 12 settimane);
- Il divieto di uscire di casa in determinati orari (per non più di un anno);
- Sospensione di patente, passaporto o documenti per l’espatrio, divieto di portare armi;
- Divieto di partecipare in qualsiasi modo a propagande elettorali, per un periodo non inferiore a tre anni.
Inoltre chi in pubbliche riunioni, faccia atti o porti simboli usuali di organizzazioni razziste rischia tre anni di galera e da 200 a 500 mila di multa, non ha l’accesso in competizioni agonistiche. Per quest’ultimo caso si procede d’ufficio.

Lavoro e sieropositività
La Legge 135 del 1990, nell’articolo 6 dice che "E’ vietato ai datori di lavoro pubblici e privati, lo svolgimento di indagini volte ad accertare nei dipendenti o in persone prese in considerazione per l’instaurazione di un rapporto di lavoro l’esistenza di uno stato di sieropositività".
Il lavoratore affetto da Aids o altre malattie correlate alla presenza del virus HIV, al pari di ogni altro malato, non può essere licenziato durante la malattia se non al termine del periodo "di comporto", stabilito di norma nei contratti collettivi.

A chi ci si può rivolgere
Anche a Genova ci sono alcune associazioni che tutelano i diritti dei lavoratori sieropositivi, fra cui la L.I.L.A. (tel. 010 2462915) l’ANLAIDS (tel. 010 2514242), e i sindacati.

Denuncia degli sfruttatori
Il Decreto-Legge n. 286 del 25 Luglio 1998, articolo 18, prevede, nel caso ci siano concreti pericoli per l’incolumità della persona immigrata, od in situazioni di violenza o di grave sfruttamento, che venga rilasciato uno speciale permesso di soggiorno di sei mesi, rinnovabile per un anno o, se c’è un processo in corso, per l’intera durata del processo stesso.
Tale speciale permesso di soggiorno prevede anche la possibilità di partecipare ad un programma di assistenza e di integrazione sociale, la possibilità di iscriversi al collocamento e di godere dell’assistenza sanitaria.

A chi ci si può rivolgere
Ci si può rivolgere alle associazioni di patronato presso i sindacati, presso il Centro Servizi Integrato Immigrati (tel. 010 255423), presso l’Ufficio Stranieri e Nomadi del Comune di Genova (tel. 010 5574559).




DOMANDE E RISPOSTE Minori in Ecstasy

L’Ecstasy, come le altre droghe di sintesi, è una sostanza simile nella struttura agli allucinogeni (la mescalina) e agli eccitanti (metamfetamine). Può essere combinata con diverse sostanze, fra cui l’eroina. E’ stata sintetizzata per la prima volta nel 1914 da un laboratorio tedesco, ed ha cominciato a diffondersi a partire dagli anni ottanta, nei techno party in Germania, in Inghilterra, nei Paesi Bassi e poi in tutta Europa. Il suo uso è in costante aumento.
L’Ecstasy dà la sensazione di potenziare le proprie capacità di socializzazione e di benessere.
Il suo uso è preferito al consumo di eroina, perché comporta minori rischi di emarginazione e di infezione da HIV, non richiedendo l’uso di siringhe. Tuttavia spesso con l’assunzione di Ecstasy cala il livello di percezione del rischio (per cui aumenta per esempio la possibilità di avere rapporti sessuali non protetti) e il livello di attenzione (per cui diventa assai pericoloso guidare).
Nel caso che ci si senta male dopo averla assunta, è necessario mantenere la calma, bere molta acqua o bevande mineralizzanti ed evitare assolutamente l’alcool. Bisogna portarsi all’aria aperta per respirare meglio e chiamare in ogni caso un’ambulanza.
Per diminuire il rischio di crisi, è necessario fare alcune pause nel ballo, bere molta acqua evitando l’alcool, prendere ogni tanto una boccata di aria fresca e portare abiti ampi e freschi, se possibile non di materiali sintetici, che permettano la respirazione del corpo.
Dal punto di vista legale, il possesso di Ecstasy per uso personale e non per spaccio, quindi in modiche quantità, non è considerato reato dalla legge italiana, ma comporta alcune sanzioni come il ritiro della patente, una multa, oppure la segnalazione ai Servizi Sociali. In questo caso la Prefettura convoca immediatamente i genitori del minore.
Al Ser.T. i consumatori di Ecstasy arrivano in tre modi: attraverso la segnalazione da parte della Prefettura, i contatti con i CIC (Centri di Informazione e Consulenza) ed i Centri Giovani, oppure attraverso i genitori stessi.
Se al Sert.T. ci arrivi tramite il CIC od il Centro Giovani, che magari hai contattato per altri problemi, la famiglia non viene informata se tu non sei d’accordo, e, se questo si ritiene necessario, sarai tu stesso a discutere con gli operatori delle modalità con cui farlo.
In questi ultimi anni il Ser.T. si sta attrezzando per tutelare i consumatori di Ecstasy (i cosiddetti "nuovi arrivi") attraverso spazi differenziati, come lo Spazio G in Piazza Dante od il progetto Vela nel Centro Storico; ma anche nei luoghi dove non sono disponibili spazi appositi l’operatore di riferimento cerca di garantire tempi differenti rispetto agli altri utenti, per esempio non lasciandoti in sala di aspetto da solo.




BLOCK NOTES

Secondo compleanno del Centro Sociale "Inmensa"
Il 24 Aprile il Centro Sociale "Inmensa" festeggia il suo secondo compleanno. Alle ore 17 si terrà un dibattito su "Territorio e ruolo del Centro Sociale", alle ore 20.30 cena sociale e inaugurazione della nuova mensa, alle ore 22 concerto Ska con Franceska e Matrioska.

Festa della Liberazione
Il 24 Aprile alle ore 22 presso il Centro Sociale "Terra di Nessuno" verrà proiettato il video "I sentieri di fischia il vento". Seguirà il concerto del gruppo Slang da Milano, con musica HIP HOP, Jungle, Jazz core.

Graffiti in libertà
Il 25 Aprile presso il Centro Sociale "Terra di Nessuno" dalle ore 14 si terrà una convention di grafomani, graffettari e diversi gruppi di lavoro che coloreranno gli spazi grigi intorno al Centro Sociale. Dalle 15 in poi si potrà gustare fave, salame e formaggio a tempo di musica.

Festa della Liberazione
Il 25 Aprile a Frascaro la Comunità di San Benedetto al Porto in collaborazione con la provincia di Alessandria organizza una giornata di festa per l’anniversario della Liberazione.

Tossicodipendenza a Genova: storia, realtà, progetto
Il 26 Aprile presso la Sala dei Chierici, nella Biblioteca Berio in Via del Seminario si terrà il convegno "Tossicodipendenza a Genova: storia, realtà, progetto.", organizzato dal Ser.T. Azienda USL N. 3 "Genovese" e dalla Regione Liguria. Il convegno si terrà dalle ore 9 alle 13 e dalle 14 alle 17:30. Per la partecipazione è richiesta la presentazione dell’invito all’ingresso.

Festa del Primo Maggio a Frascaro
Come ogni anno, la Comunità di San Benedetto al Porto dà appuntamento a Frascaro per festeggiare insieme la festa dei lavoratori. Informazioni presso la Comunità di San Benedetto.




Colophon

anno due - numero quattro - aprile 1999 - distribuzione gratuita
Rivista mensile di carattere socio-culturale - A cura dell’Associazione Comunità San Benedetto al Porto - Via S. Benedetto, 12 - 16129 GENOVA - tel. 010267877 - fax 0102464543 - Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 32/98 del 24-11-1998 - Redazione: Via Amba Alagi 6/8r - 16129 GENOVA - tel & fax 0102461290 - e-mail: [email protected] - Direttore responsabile: Francesco Pivetta - Caporedattore: Claudio Costantini - Hanno collaborato a questo numero: Hassan Assaad, Maria Cecilia Averame, Gabriele Baroni, Roberto Boca, Carola Frediani, Marco Lombardo, Elvira Malfatto, Massimiliano Olivieri, Gabriella Paganini, Liana Prezioso, Antonello Sechi - Gli articoli possono essere riprodotti citando la fonte - Il progetto dell’Associazione San Benedetto al Porto, in collaborazione con il Ser.T. Usl 3 genovese e la L.I.L.A., è finanziato dal Fondo Regionale lotta alla droga della Regione Liguria (delibera della Giunta n° 740 del 27.03.1998) - Tiratura: 2500 copie - Stampato presso: TipoLitografia - Coop. Soc. La Lanterna.