Lunedì, ore 13, in taxi. Fuori piove
sull’ingorgo di piazza Cavour. Un giovane operaio in tuta blu scende dalla
sua auto gridando come un ossesso. Qualcuno l’ha vigliaccamente sorpassato.
Pallido come un morto grida: "io l’ammazzo". Apre il portabagagli, afferra
un tubo di ferro e corre verso l’infame. Arriva gente per placarlo. Niente.
Lo placca, invece, un vigile. Il tassista - sessant’anni, aria paciosa
- scuote la testa e commenta: "Io e mia moglie siamo tra coloro che non
escono la sera. Non per paura dei tossici: basta una spallata... Non per
timore dei marocchini: sono stranieri e a mettersi con me hanno tutto da
perdere. Ma questi giovani violenti, che incontri magari in corso Italia,
questi sì che mi fanno paura".
Chi sono i delinquenti? Quelli che finiscono
in carcere?
I dati statistici della popolazione carceraria
in Liguria sono inquietanti: 20,6% italiani tossicodipendenti, 44,5% stranieri,
21,9% stranieri tossicodipendenti. Se si accorpano i dati, si scopre che
quasi il 50% è formato da tossicodipendenti. Quasi il 50% da stranieri.
E’ probabile che il 50% conosca a mala pena la lingua italiana e ancora
meno la legge e i suoi iter. Il carcere italiano appare sempre di più
un mondo a parte, un luogo di ‘apartheid’ dei più deboli, più
stranieri, più disperati, più sprovvisti di strumenti di
autotutela.
Criminali? Secondo un funzionario carcerario
(intervista pubblicata da A. Dal Lago in ‘Non- persone’, Feltrinelli editore,
aprile 1999, pp.268) "Dai primi anni novanta a oggi in carcere sono entrate
e vi rimangono persone che difficilmente possono essere paragonate a quello
che solitamente si immagina come detenuto, una persona che vive in qualche
modo deliberatamente fuori dalla legge. Le persone che solitamente entrano
sono persone sostanzialmente sfigate, che in molti casi non si rendono
neppure tanto bene conto di dove sono perché ci sono, a che cosa
vanno incontro, dentro quale tipo di codice sono finiti".
Giustizia è fatta?
Sezione
a custodia attenuata
DisSERTando-
a cura del SER.T. Usl 3 Ambito 2
Il progetto della sezione nasce dal presupposto
che il carcere è comunque negativo per le persone che hanno problemi
di tossicodipendenza o di alcoldipendenza e dalla constatazione che le
richieste di trattamento socio-riabilitativo dei detenuti hanno esito negativo
più frequente rispetto a quelle provenienti dall’utente in condizioni
di libertà.
Da questo l’idea di strutturare un luogo
inteso come spazio fisico e temporale, un percorso interno al carcere che
offra opportunità terapeutiche e riabilitative a detenuti che vogliano
uscire dalla tossicodipendenza e dal circuito penale e la possibilità
di avviare progetti post-detentivi che proseguano nel contesto naturale
di appartenenza.
L’équipe composta da operatori dell’Amministrazione
Penitenziaria, dal Ser.T. della U.S.L. 3 Genovese e della Cooperativa "Il
Biscione" si propone di fornire al detenuto una possibilità di costruire
un percorso di vita alternativo a quello da lui conosciuto e sperimentato
attraverso interventi a diversi livelli.
Si concorda un progetto individuale con
le singole persone e sono previste attività che tengono conto delle
risorse personali:
Conan
il Barbaro
La prima cosa che pensi quando un cancello
ti si chiude dietro è: come farò a sopravvivere qui? Non
si è di certo nei supercarceri dei film né in quelli letti
nei libri, ma quando un cancello si chiude dietro di te ci si rende conto
che da quel momento esisterà un dentro e un fuori. Ed è solo
in quel dentro che, non si sa per quanto tempo, si tenta di vivere.
E si è soli. Si può essere
la figlia, la sorella o la donna di qualcuno che conta, che è regolare.
Ma loro non sono lì. Non possono proteggerti, spiegarti che cosa
è. Non possono dirti come ci si deve comportare. Bisogna impararle
da soli, e in fretta, quelle che sono le regole. Più in fretta che
si può.
Ci si ritrova, così, a scoprirsi
paurosi, forse vigliacchi, in un mondo dove queste parole devono essere
bandite. Bisogna farsi rispettare, farsi valere.
Con la prepotenza, con la violenza non
sempre ce la si può fare, o almeno, non è per tutti. A questo
punto ci si deve inventare dell’altro, scovare qualcosa che possa garantire,
nonostante tutto, il rispetto degli altri e un quieto vivere.
Bene, signori, si parte e…sorridi, sorridi,
sorridi. Va sempre tutto bene. Ma come fai ad essere sempre così
allegra? Come le dive dei film i sorrisi vengono regalati. Nessuna discriminazione,
ad ognuno il suo. Nessuna preferenza, creerebbe troppi problemi. Qualcosa
non ti va bene? Se ne approfittano di qualcuna, magari vedi che la stanno
picchiando? Meglio non immischiarsi, non è affar tuo. Ti tieni tutto
dentro pensando a quanto sei schifosamente vigliacca, a quanto tutto questo
ti fa schifosamente male e quanto vorresti gridare sulle loro facce: STRONZE!
E così passa il tempo. Finché
un giorno la cella si apre ad un orario non convenuto:
- Vai al Pt; c’è una visita per
te, la psichiatra
- Perché? Io non ho fatto richiesta
- Non so, so solo che vuole vederti.
Allora scendo, col sorriso, anche un po’
strafottente. E’ in saletta che mi aspetta. Entro, mi siedo.
- Scusami, ma sono io che ti ho fatto chiamare.
E’ da un po’ che ti osservo. Mi incuriosisci.
La conversazione va avanti con le solite
domande di rito: da quanto tempo, come ti trovi, è la prima volta…
- Leggendo il tuo fascicolo ho scoperto
perché ti trovi qui. E’ un reato pesante.
- Lo so.
- Sì, ma non capisco una cosa. Come
fai, nonostante tutto, ad essere sempre così sorridente, allegra.
Ti senti bene?
Il colloquio dura un’ora. Ma alla fine
lei se ne va senza aver capito niente. Probabilmente.
Incontro
Quando entri pensi che il mondo rimanga
fuori. O almeno, in parte lo speri e in parte è reale.
Tutto il dentro è impregnato di
faticosa monotonia, di insana ripetitività. Ogni momento della giornata
è scandito dalle ore: l’ora della conta, l’ora della apertura delle
celle, l’ora della posta, l’ora del lavoro, della socialità, l’ora
della chiusura delle celle, le tante ore della notte.
Il dentro è un mondo a parte. Un
mondo fatto solo di cognomi, di famiglie, di appartenenze, di legami, di
amori, di occhi, di bocche e orecchie ben chiusi, in definitiva di sopravvivenza.
Difficile è scuotere la routine di questo mondo, anche se a volte
può succedere. In fin dei conti siamo noi che vogliamo il mondo
fuori…
Mi sento chiamare. Qualcuno sta pronunciando
il mio nome, anzi, il diminutivo del mio nome. Era tanto che non lo sentivo.
Mi giro, vedo solo una divisa blu. Siamo sole. Mi domando: come mai mi
ha chiamato?
- Non mi riconosci? Andavamo a scuola insieme.
Sono tesa. Devo stare all’erta. Corpo e
cervello all’unisono scattano sulla difensiva: nessun rapporto deve esserci
tra loro e noi.
- Ti sbagli, non sono di queste parti.
Pronuncia nuovamente il mio nome. Sicuramente
non si rende conto che sentirmi chiamare è un salto all’indietro
nel tempo, un ritorno al passato che mina tutta la mia corazza. Mi rende
fragile, vulnerabile.
- Mi passavi i temi di italiano. Per cinque
anni siamo state compagne di banco. Ti ricordi?
E’ fatta. Ricordo perfettamente, quasi
stento a crederci: la donna dai capelli rossi, quella che ha il compito
di aprirmi e chiudermi la cella, è stata la bambina a cui chiedevo
la merenda in cambio dei compiti.
Un altro salto all’indietro, un altro scossone,
ma lei non sa. Non può capire cosa mi ha appena fatto. E’ solo per
otto mesi che ho creduto che il mondo, quello vero, fosse rimasto fuori.
Galera
Non li ho proprio visti. Ogni volta la
stessa storia: puoi stare in guardia quanto vuoi, tanto non riesci neppure
a capire da dove saltano fuori e in un attimo ti ritrovi carcerato. Mi
fanno salire in macchina, il CQ gracchia, come sempre.
E’ strano, quasi impensabile, eppure l’unica
cosa che mi viene in mente è di arrivare a Marassi il più
presto possibile.
L’obiettivo è trovarmi in fretta
una cella, magari con qualche amico. Non sarà breve.
Prima di tutto si passa dalla matricola
dove fai le foto e ti prendono le impronte, poi devi consegnare tutto quello
che ha un minimo di valore come oro, orologio, orecchini, e tutto quello
con il quale, a detta della direzione di turno, puoi farti del male: la
cintura, i lacci delle scarpe. Ti spogli, fai le flessioni e ti rivesti.
Prima di salire in sezione la direzione
ti fornisce il necessario: una coperta, un pezzo di sapone, due piatti
in metallo, le posate in alluminio con il manico di plastica, un bicchiere
di plastica (quelli di metallo non li danno più perché si
usavano per farci bollire l’olio da tirare addosso al nemico di turno o
per scaldarci la roba), una brocca, sempre di plastica, da mezzo litro
per il latte.
Visita medica, esami del sangue, terapia
del caso, se sei tossico e stai male tieni duro perchè il metadone
arriva il giorno dopo, nulla-osta sanitario e si entra in un mondo a sè,
parallelo a quello fuori dal muro di cinta.
Di norma, prima di farti salire ai piani,
passi un paio di giorni al pian terreno nelle celle dette dei nuovi giunti.
Se sei fortunato resti solo, quel tanto
che basta per prepararti a mettere in atto quei meccanismi di difesa fisici
e mentali che ti serviranno per passartela meno peggio.
Se invece non sei fortunato, la sorte può
riservarti le sorprese più strane: ragazzi che non reggono l’astinenza
e si tagliano le vene, furiosi di ogni genere che fanno un casino infernale
per avere qualche goccia di terapia in più.
Per i nuovi giunti, è tagliata la
spesa straordinaria: anche se hai dei soldi non puoi comprare, quindi se
non hai qualche amico niente sigarette, niente olio, pasta, zucchero, caffè,
niente di niente.
L’attesa per i nuovi giunti dipende da
quanto è affollata la struttura.
Salire ai piani è, per quanto difficile
a capirsi, una liberazione.
Incontri amici, gente con cui parlare,
trovi aiuti concreti per poterti creare uno spazio vivibile. Vivibile significa
avere il necessario per cucinare, qualche soldo per le sigarette e per
comprarti carta e penna.
Qualche tempo per ambientarti, poi la routine:
il tempo è scandito dalla battitura delle sbarre che fanno le guardie
in orari ben precisi, la posta, l’uscita all’aria, discorsi di malavita.
Il trasferimento tanto atteso è
una questione di fortuna perché non è soggetto a nessun criterio,
bisogna vedere dove capiti, e chi è il direttore.
Non sempre viene tenuta in considerazione
la distanza da casa tua.
Una volta arrivato o tradotto a destinazione,
non significa un bel niente, perché tutto ricomincia da capo: la
solita routine: il tempo è scandito dalla battitura delle sbarre,
che fanno le guardie in orari ben precisi, la posta, l’uscita all’aria,
discorsi di malavita, il tutto in attesa di un altro trasferimento.
Matricole
Grosso bancone, marrone. Dietro una guardia.
Prende nota di te: nome, cognome, data di nascita ecc.
Dopo di te inizia l’inventario di
ciò che possiedi. Naturalmente si parla di ciò che si possiede…al
momento dell’arresto.
Gli oggetti si selezionano: quello che
puoi portare con te e quello che deve rimanere lì, nel casellario.
Mi accendo una sigaretta. Aspetto. Aspetto
di entrare dentro.
La guardia mi guarda. Mi indica un cartello:
VIETATO FUMARE
- Sai leggere?
- Sì, ma anche lei sta fumando…
- E’ vero… ma è per te il cartello,
non per me.
Gli
orologi di Marassi
In visita a Marassi, alle dieci e un quarto
di un sabato mattina, la prima cosa che mi accoglie passato il riconoscimento
ed i controlli, è un grande orologio a muro, in un corridoio bianco,
con le lancette fisse sulle 12 in punto. Proseguo per il corridoio sorpassando
porte blindate e mi ritrovo in un grande salone da cui si dipartono diverse
braccia. Anche in questo salone centrale un orologio a muro, o forse due
, mi ricordano che è mezzogiorno. D’altronde io non porto orologi
al polso, e paradossalmente nulla potrebbe contraddire l’ipotesi che sia
effettivamente mezzogiorno. Ma forse è un caso, due orologi fermi
alla stessa ora si possono trovare in qualsiasi ufficio pubblico o privato.
Dal salone centrale, vengo accompagnata
per un altro corridoio, due rampe di scale, un terzo (o quarto, o quinto)
corridoio e un’ultima saletta. Altri orologi nel percorso mi ricordano
che sono sempre le 12 esatte. A questo punto, incuriosita, faccio notare
la mia scoperta alla mia accompagnatrice.
"Non ci ho mai fatto caso…" risponde sorridendo.
Terminata la visita – qualcuno mi ha suggerito
che dovrebbe essere l’una meno venti – vengo riaccompagnata all’uscita
da una seconda accompagnatrice. Anche a lei chiedo spiegazioni sugli orologi
di Marassi. "In carcere il tempo si ferma", mi risponde. Forse un po’ più
di una battuta, non lo so.
Osservatorio
La
reclusione in Liguria
906 persone sono
detenute a Genova nei Carceri di Marassi e di Pontedecimo. In tutta la
Liguria sono 1619. A questi ultimi dobbiamo aggiungere 547 detenuti liguri
che, per mancanza di posti, risiedono in carceri fuori regione, in Toscana,
a Massa, in Piemonte e in Sardegna.
La media ligure
di detenuti per abitanti è di 94 su centomila, contro la media nazionale
di 84 su centomila.
La tossicodipendenza riguarda il 42,5% della
popolazione maggiorenne carceraria. C’è una donna tossicodipendente
ogni tre uomini tossicodipendenti, contro una media nazionale con valori
ben più bassi.
Gli stranieri rappresentano in carcere
il 43,5% della popolazione.
Un particolare interessante è che
in Liguria le denuncie verso persone straniere sono il 50% del totale delle
denuncie sporte, contro un 25% della media nazionale, e si riferiscono
spesso non ad atti contro la persona o le cose, ma a reati minori, per
i quali si potrebbe anche non procedere.
Le donne a Pontedecimo sono 77, ed il 20%
di queste hanno tre o più figli. La loro presenza risulta comunque
in calo rispetto all’anno precedente. In Liguria sono il 5,3% della popolazione
carceraria, contro una media nazionale del 3,9%.
Marassi: le battaglie
dei detenuti
Il carcere di Marassi è sempre stato
un carcere di contenimento; in passato era soprattutto un luogo di transito,
si entrava per essere trasferiti in altri penitenziari dove c’era disponibilità
di posti. Negli ultimi anni è tuttavia iniziata una lenta ristrutturazione
che ha portato a smantellare la vecchia sezione femminile e il vecchio
Centro clinico.
In seguito alla visita del ministro Flick
nel’96 c’è stata un’accelerazione dei lavori e i detenuti sono stati
sistemati in due sezioni: nella prima sezione quelli ancora giudicabili,
nella seconda quelli con sentenza definitiva. Da allora sono cessati i
trasferimenti forzati, anche in virtù del principio di territorialità
della pena, se questa non è troppo alta. Oltre alle prime due sezioni
è stata costituita la sezione a regime duro, il 41 bis, mentre nello
scorso settembre è nata una nuova sezione di Custodia Attenuata
per i tossicodipendenti.
Il carcere, la cui capienza è di
484 unità, si è andato affollando e conta, al 31 marzo 1999,
751 detenuti, di cui metà extracomunitari.
In questa situazione d’emergenza l’Amministrazione
Penitenziaria spesso non è riuscita a soddisfare le molteplici esigenze
dei detenuti. Si registrano tuttavia alcuni progressi. Con l’amministrazione
di Sansa e il ministero di Flick nasce a Genova il primo progetto per dare
la possibilità a 12 detenuti (6 di Marassi e 6 di Pontedecimo) di
lavorare in una cooperativa esterna in virtù dell’art. 21.
Poi, nell’autunno del ’96, arriva una circolare
ministeriale che stabilisce la necessità, per Genova e la Liguria,
di un Centro clinico.
A tal fine viene ripristinato il vecchio
Centro clinico in cui, nel dicembre dello stesso anno, sono convogliati
tutti i detenuti sieropositivi e HIV/Aids in base a una lista stilata dalla
direzione. Questo fatto crea però una situazione di forte disagio
per molti detenuti. Una loro delegazione chiede spiegazioni al dirigente
sanitario e alla direzione. In seguito a ciò la direzione decide
di rinviare nelle sezioni i sieropositivi.
Nel Centro Clinico per altro non esiste
un ambulatorio, i turni degli infermieri sono aleatori e per i detenuti
che vi sono stati trasferiti non sembra essere cambiato nulla, se non la
sensazione di un maggiore isolamento. Alcuni detenuti malati di Aids del
Centro si fanno così promotori di uno sciopero della fame (e di
un rifiuto della terapia) per manifestare alla direzione l’insostenibilità
della loro situazione. Ottengono l’istituzione di un ambulatorio infermieristico
al Centro con la presenza di infermieri giorno e notte e la consulenza
di due infettivologi.
La situazione si fa dunque più vivibile,
ma i detenuti del Centro continuano ad essere una "patata bollente" per
l’Amministrazione. Da questo momento promuovono varie battaglie.
La prima è per rendere accessibili
ai detenuti HIV gli inibitori della proteasi, cioè i medicinali
più recenti, somministrati fino a quel momento solo a quei detenuti
che, all’ingresso in carcere, già ne facevano uso. Grazie all’intervento
di due medici si trova tuttavia una scappatoia: l’approvvigionamento di
questi farmaci per il singolo detenuto avviene grazie a un ricovero day-hospital.
A detta dei detenuti, anche dopo che una
convenzione dei ministeri di Sanità e Grazia e Giustizia ha reso
accessibili questi farmaci nelle carceri, la situazione non è cambiata.
Nel’97 nel Centro scoppia una minirivolta
sedata duramente dagli agenti; sono presi vari provvedimenti disciplinari
e scattano varie denunce. Dopo questo episodio, l’on. Lino Debenetti visita
il carcere e denuncia la difficile situazione alla stampa. Seguono le visite
di altri politici, tra cui i consiglieri regionali Barzaghi, Zunino e ancora
il ministro Flick.
I detenuti chiedono maggior vivibilità,
spazi, attività; chiedono inoltre di poter fare esami diagnostici
particolari, come la carica virale. C’è poi il problema dell’anonimato
e del diritto alla privacy che in carcere viene meno.
I detenuti sollevano poi un altro problema
di natura medico-legale: tutte le consulenze e le perizie richieste dai
magistrati sulla compatibilità HIV-carcere sono eseguite dai medici
della medicina legale, e non dagli infettivologi che, a rigor di logica,
sarebbero più indicati a pronunciarsi sulla materia.
Viene intanto ripristinata la vecchia cucina
del Centro per migliorare l’alimentazione dei suoi ospiti.
Malgrado i piccoli progressi (e l’elogio
del Centro clinico di Marassi fatta da Flick) i problemi continuano.
La LILA organizza sit-in fuori da Marassi
mentre arriva in visita la Commissione Sanità del Senato. Nel frattempo
in carcere muoiono di AIDS vari detenuti, l’ultimo il 29 gennaio 1999.
Una trentina di detenuti malati invia allora una lettera al ministro Diliberto
portando il caso Marassi all’attenzione dell’opinione pubblica anche grazie
a un appello di Adriano Sofri sui giornali.
Si arriva così alla visita non protocollare
del sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia, Francesco Corleone,
avvenuta l’11 febbraio 1999. Il suo giudizio sul Centro clinico è
perentorio: "uno schifo".
I detenuti malati di Aids, sieropositivi
o affetti da altre immunodeficienze sono circa 100, di cui 25 isolati.
Lamentano la sporcizia, il cibo cattivo, le difficoltà nel ricevere
le cure e i medicinali necessari. Corleone promette un intervento netto
e tempestivo per sistemare la situazione e preannuncia l’approvazione di
una nuova legge sull’incompatibilità di malattia e detenzione.
L’isolamento di Pontedecimo.
Di Pontedecimo non parla mai nessuno, se
non quando trapela la notizia di un suicidio o di una morte per overdose.
E’ l’unico carcere femminile in Liguria ed è stato aperto nel’ 90.
La sua collocazione esterna alla città sembra simboleggiare bene
il silenzio e l’isolamento in cui è immerso.
A Pontedecimo ci sono 155 detenuti, 78
uomini e 77 donne. La struttura è nuova – originariamente venne
costruita come carcere minorile – e tutto, dall’architettura all’organizzazione
interna, contribuisce a dare un senso di ordine e silenzio. Ma gli spazi
sono piccoli, limitati; le aree comuni di socializzazione inesistenti,
escluso il rettangolo dell’aria. I detenuti che sono stati a Marassi ricordano
la sporcizia, la confusione, il sovraffollamento, i "bacarozzi", eppure
lo rimpiangono. Qui manca tutta la parte più sociale e ricreativa
di un carcere. C’è una scuola, ci sono i corsi di computer, di yoga,
ma sono sfruttati poco. Il problema più grosso per le detenute è
tuttavia l’impossibilità di lavorare dentro il carcere. Ci sono
circa 10 posti, in cucina, in lavanderia, come ‘spesina’ e come ‘scopine’
(queste ruotano ogni mese per uno stipendio intorno alle trecentomila lire).
Ciò significa – dicono le detenute – che se non si ha una fonte
di reddito esterna, a Pontedecimo si fa letteralmente la fame. Secondo
loro il vitto è immangiabile e più della metà viene
buttato. Se vogliono cucinare da sè devono comprare il sopravitto,
che non è affatto economico. Molte detenute lamentano inoltre la
presenza di un’atmosfera asfittica, di tensioni con la polizia penitenziaria,
un’applicazione rigida dei regolamenti. In passato si sono registrati vari
tentativi di suicidi da parte delle detenute, alcuni portati a compimento.
Il 5 maggio è morta una tossicodipendente di 22 anni, per sospetta
overdose, probabilmente a causa di una miscela di droghe e farmaci. Non
molto tempo prima aveva tentato il suicidio.
D’altra parte anche per le agenti di custodia
la situazione è pesante. L’insufficienza del personale le costringe
infatti a turni massacranti, programmati di settimana in settimana, senza
che sappiano con certezza se e quando andranno in ferie.
A giorni dovrebbero arrivare 29 nuove agenti
uscite dal corso di formazione, in modo da favorire un clima più
disteso nelle relazioni con le detenute.
Inchiesta:
e
dopo il carcere...
E dopo il carcere?
Quali possibilità e iniziative esistono per chi infine esce dal
carcere? Chi se ne occupa?
A Genova qualcosa
si muove, anche se ancora il detenuto riceve molte informazioni e pochi
aiuti concreti.
In teoria, quando ancora una persona sta
"dentro" dovrebbe cominciare a ricevere una serie di informazioni e di
indicazioni per collegarsi con l’esterno e prepararsi all’uscita.
Tutti i soggetti e gli operatori che hanno
a che fare col carcere ribadiscono la necessità e l’importanza dei
legami fra il carcere e il mondo esterno; questi legami tuttavia sono ancora
pochi e aleatori.
In questo campo opera, ormai da due anni,
per iniziativa del Comune di Genova, la Consulta carcere-città che
raggruppa molti soggetti istituzionali e non (dagli enti locali alle associazioni).
Le attività svolte sono state finora di monitoraggio e informazione.
Un gruppo di lavoro della Consulta si è
rivolto – attraverso un ciclo di conferenze tenute dal Sert, dal Comune,
dalle cooperative sociali ecc – ai detenuti dimittendi per informarli delle
risorse della città. Un secondo gruppo si è occupato di immigrati
ed ha preso contatto con i mediatori culturali informandoli sulle leggi
e possibilità esistenti.
Ora è nato un altro gruppo che sta
lavorando per la costituzione di uno Sportello informativo come previsto
da una circolare del Ministero di Grazia e Giustizia. Il progetto (che
oltre a Genova coinvolge altre 7 città) prevede che questo sportello
non sia in carcere ma al Centro di Servizio Sociale per Adulti (010 53471),
il quale dovrebbe "operare in rete", ossia collaborare, con il volontariato
e il privato sociale. La funzione di questo sportello è, come dice
il nome, di informazione sia sulle norme riguardanti la detenzione e le
misure alternative sia sul mercato del lavoro. E dovrebbe attivarsi dopo
l’estate.
Ma torniamo al detenuto che è sul
punto di uscire: ci accorgiamo che si trova di fronte a un vero percorso
di guerra. Dopo aver ricevuto e diligentemente raccolto tutte le informazioni
possibili attraverso le conferenze organizzate dalla suddetta Consulta,
attraverso gli assistenti sociali, gli educatori e il tam-tam di amici
e conoscenti non appena mette piede fuori dal carcere non è più
seguito da nessuno.
Una volta si poteva presentare con il certificato
di detenzione ai Servizi sociali di via Bertani ed ottenere un sussidio.
Ora non più.
Insomma, una volta usciti, "per la legge
si è come gli altri cittadini", dice Letizia Santolamazza dei Servizi
sociali.
A questo punto il neodimesso può
tentare di rivolgersi al Centro si Servizio Sociale per Adulti, per il
quale però la sua pratica è chiusa e non può fare
altro che indirizzarlo in altri posti, ad esempio Massoero e Compagnia
di Misericordia.
"Il fatto è che manca il raccordo
tra interno ed esterno – spiega Santina Spanò del CSSA – Come Amministrazione
penitenziaria ci siamo posti il problema dei dimittendi, ed è per
questo che abbiamo dato vita alle conferenze in carcere, che arrivano però
solo a un numero limitato di detenuti".
L’ex-detenuto potrà allora bussare
alla porta dei sindacati e delle cooperative sociali. I primi non hanno
però sezioni o attività specificamente finalizzate al reinserimento
dei detenuti. Per lo più lavorano in rete con gli altri Enti e associazioni.
Ci si può rivolgere al Centro per il lavoro della CGIL (0106028472)
oppure al Centro servizi di CISL (0102473577) e UIL (010586874).
Per quanto riguarda le cooperative sociali,
si segnala in particolare il consorzio Federazione Solidarietà e
Lavoro (0102470737) che inserisce ex-detenuti (per lo più con storie
di tossicodipendenza alle spalle) nell’ambito dei servizi turistici e delle
pulizie. Con il carcere ha collaborato attraverso delle borse-lavoro per
ex-detenuti o detenuti in semilibertà che poi si sono trasformate
in assunzioni. Bisogna sapere che il numero di posti è limitato
e che ci sono delle liste di attesa abbastanza lunghe.
Lo stesso discorso (posti limitati e liste
di attesa) vale per la Veneranda Compagnia di Misericordia (0102469174)
che ha il merito di essere forse l’unica associazione interamente dedita
al reinserimento degli ex-detenuti (fin dal XV secolo!). Con loro si deve
prendere contatto quando vengono in visita in carcere; hanno a disposizione
due laboratori, uno per uomini (4 posti) e uno per donne (circa 13 posti),
oltre che una casa - famiglia per 8 donne in misura alternativa.
"Il problema – dice il coordinatore Giovanni
Gallina – oltre al numero limitato di posti che possiamo offrire, è
che dopo di noi non c’è niente. Da noi si può stare 6 mesi,
eventualmente rinnovabili, e nel frattempo si dovrebbe cercare qualcos’altro
in giro. Ma all’interno delle fasce deboli l’ex-detenuto è il più
discriminato, anche se assumendolo si hanno delle agevolazioni fiscali".
In questo quadro, la Regione ha promosso
un’iniziativa per il reinserimento lavorativo di un gruppo di detenuti,
semiliberi o in misura alternativa.
Si tratta del progetto "Oltre la siepe",
che coinvolge tutte le 7 carceri liguri e prevede più fasi.
La prima è di formazione del personale
penitenziario (polizia, educatori, direttori e vice) e degli operatori
esterni.
Questa fase, che ha incontrato alcune resistenze
e perplessità da parte dello stesso personale, sarà seguita
da un’altra fase di orientamento dei detenuti (ne sono previsti 120, di
cui tre quarti in carcere e un quarto in misure alternative) che sfocerà
in una trentina di posti di lavoro nel settore edile, agricolo e nel Terzo
settore. "Questo progetto vuole essere innovativo e di stimolo, vuole creare
le condizioni per un cambiamento di mentalità, utilizzare strumenti
diversi – spiega Massimo Giacomo Terrile dell’Agenzia per l’impiego – Il
problema dei corsi in carcere è che seguono le risorse del momento
più che le attese dei detenuti. L’idea nuova è quella di
realizzare le iniziative e la formazione all’esterno del carcere.
I nostri progetti vogliono essere individuali,
adattarsi alla singola persona e coinvolgere associazioni, imprese e sindacati".
Sui 1619 detenuti liguri ci sarà
dunque un gruppo di trenta fortunati e volenterosi che agganciati da questo
megaprogetto (1 miliardo e trecento milioni di finanziamento, provenienti
da fondi comunitari e dal Ministero del Lavoro) usciranno dal carcere con
qualche prospettiva.
Nessuna prospettiva sembrano avere gli
extracomunitari detenuti (43,5% circa della popolazione carceraria ligure)
quando escono dal carcere. "Finchè sono dentro possono partecipare
a tutte le attività e possono anche lavorare – dice la dott.ssa
Bicci, vicedirettrice di Marassi – Il fatto è che non essendo radicati
nel territorio per loro è molto difficile godere delle misure alternative
e reinserirsi quando escono".
Il problema principale è che la
maggior parte esce dal carcere per entrare nella clandestinità.
"Essendo irregolari – spiega Modou Kandji del Centro Servizi Integrato
– non possono partecipare né a corsi di formazione né, per
i tossicodipendenti, a programmi di disintossicazione. Non possono essere
assunti dalle cooperative sociali e anche se vengono da noi il massimo
che possiamo dare è un buono-pasto o un buono-doccia. Per loro,
che sono nello stesso tempo extra-comunitari, ex-detenuti e clandestini,
il dopo-carcere è veramente il buio. E alla fine tornano nel mondo
della delinquenza". Qualche spiraglio sembra comunque aprirsi anche per
loro. "Fino all’ultima legge sulle regolarizzazioni, la n. 40 del 1998
– interviene Saleh Zlaghoul della CGIL – quando gli immigrati uscivano
dal carcere dovevano presentarsi in Questura, dove ricevevano il provvedimento
di espulsione. Ora, in base all’art.13 della nuova legge, anche per reati
di una certa gravità spetta al giudice decidere l’espulsione sulla
base della pericolosità sociale dell’immigrato. Bisognerebbe avere
il coraggio politico di estendere questa possibilità anche a quegli
immigrati già condannati su cui pende il provvedimento di espulsione,
in modo da evitare la clandestinità e favorire l’integrazione".
il
fiore all’occhiello
la
sezione a custodia attenuata nella casa circondariale di Marassi
Il progetto della Sezione a Custodia
Attenuata coinvolge la direzione dalla Casa Circondariale di Marassi, il
servizio Tossicodipendenze della USL 3 genovese, ed il Servizio Sociale
Adulti del Ministero di Grazia e Giustizia. Collaborano inoltre Regione,
Provincia e Comune, l’Agenzia Regionale per l’Impiego, il privato sociale,
volontari.
L’idea nasce dalla constatazione che
i detenuti tossicodipendenti che fanno richiesta di intraprendere un percorso
terapeutico, hanno come obiettivo principale la concessione di misure alternative
alla detenzione. Spesso essi si trovano ad affrontare l’esterno senza una
reale motivazione al cambiamento, senza relazioni sociali e personali che
li aiutino a non ricadere nelle stesse situazioni che li hanno condotti
alla tossicodipendenza ed alla detenzione. Peraltro, le richieste di trattamento
socio-riabilitativo da parte di detenuti hanno esito negativo più
frequentemente di altre.
La Custodia Attenuata si trova in un’ala
separata e ristrutturata del carcere in cui i detenuti (fino a un massimo
di 40) godono di una più ampia libertà di movimento e sono
impegnati per tutto il giorno in una serie di attività, scolastiche,
di orientamento, di formazione professionale, ricreative (laboratori, teatro,
ecc).
Per accedere alla Custodia Attenuata
il detenuto deve farne richiesta al gruppo che gestisce il progetto e che
esprime una prima valutazione; la decisione definitiva spetta alla Direzione
carceraria.
Uno degli obiettivi principali di questo
progetto , per ora in fase sperimentale, che terminerà ad agosto,
è la creazione e il mantenimento di "significative connessioni fra
il carcere ed il territorio".
I detenuti
Ad Aprile 1999 è stata fatta una
valutazione del progetto di Custodia Attenuata, che ha coinvolto in parte
anche i detenuti. Riproponiamo alcune considerazioni che sono emerse dalla
loro discussione con gli operatori.
L’ingresso nella
sezione. Molti ragazzi lo hanno vissuto come una vera e propria
‘liberazione’: "Avevo già avuto esperienza di strutture più
aperte, comunque entrare è stata una liberazione", "Mi sono sentito
più sereno, c’è meno tensione", "E’ tutto più tranquillo,
mi sembra di essere tornato al minorile".
Altri hanno incontrato difficoltà
nello sperimentare nuove modalità, per esempio la rinuncia all’alcool
ed agli psicofarmaci, di cui facevano uso abituale: "Mi sono chiesto: è
questo lo ‘stare aperti?’ Mi sembrava tutto più stretto, più
buio"; "Ero in astinenza e stavo male"; "Mi mancava il vino, mi mancava
la sezione. Ero lavorante e volevo ‘girare’. Mi mancava la TV accesa tutta
la notte".
Fra le motivazioniche
hanno condotto a richiedere la Custodia Attenuata, emerge il bisogno di
"essere aiutati di più": secondo gli operatori si tratta della voglia
di uscire al più presto e della convinzione che gli stessi operatori
possano fare qualcosa in questo senso.
Sulla vita nella
sezione la differenza dalle altre sezioni sembra consistere in un
minor peso della burocrazia: "Qui non bisogna fare mille domandine per
avere una cosa, ne basta una"; "Concretamente, le cose sono più
semplici".
Il rapporto con l’équipe
evidenzia il desiderio di relazioni più strette e più umane.
"L’équipe è un collegamento con l’esterno"; "E’ uno scambio
reciproco: in loro trovi un modello e loro si arricchiscono con le nostre
esperienze: partono prevenuti, poi ci apprezzano come persone"; "Portano
vita all’interno. Mi piace quando c’è tanto viavai". "Siamo comunque
in galera, qualunque cosa si faccia siamo condizionati dal meccanismo burocratico
del carcere".
Sulle attività
della sezione, emergono da una parte le difficoltà ("Alzarsi
la mattina e seguire le attività, data la vita a cui siamo abituati,
è la cosa più difficile"), dall’altra il desiderio di portare
avanti interessi e attitudini personali riscoperte in virtù proprio
di questa attività. Prova ne è la richiesta di più
ore di scuola, di materiale per attività artistiche ed espressive,
spazio per attività fisiche.
Una questione centrale è quella
delle regole. Alle regole del sistema
penitenziario, a quelle non scritte del vivere comune, si affiancano le
regole interne della sezione. "Di là ci sono più pregiudizi,
ma si fanno i conti: ad esempio un infame va via dalla cella, qui no";
"Le regole servono per vivere con altre persone".
Per ultimo due battute: "Stando qui mi
sono accorto di essere stanco. Stanco di non riuscire a condividere le
mie emozioni e la mia solitudine".
"Scrivetelo: ma a quelli che sono fuori,
importa di quello che pensiamo e che facciamo? Aspetto una risposta".
Un’osservazione sull’individualità
delle risposte
La Sezione di Custodia Attenuata nasce
come proposta di una nuova metodologia di intervento, diretta all’unico
problema della tossico (e alcool)-dipendenza. All’interno della sezione,
viene ribadita la necessità della costruzione di un rapporto con
il singolo detenuto, che ha per assunto di base la necessità di
evidenziare e strutturare percorso individuale.
Lucia Castellano, che è stata vice-direttrice
della casa Circondariale di Marassi, oggi direttrice della Casa Circondariale
di Eboli, ci ha confermato che questa è una tendenza generale nella
gestione delle carceri: "In questi ultimi anni è stata attuata una
politica di differenziazione dei circuiti penitenziari. Per ogni detenuto
che entra c’è una risposta diversificata a seconda che sia mafioso
o tossicodipendente o altro. Questa differenziazione avviene anche all’interno
del singolo istituto attraverso diverse sezioni; dal regime di 41bis alla
massima sicurezza, alla detenzione comune, alla custodia attenuata. Su
questa operazione sembra esserci un accordo comune. Si discute solo se
sia meglio creare istituti specializzati o se differenziare la custodia
all’interno dello stesso istituto".
"La differenziazione della pena - dicono
alcuni ex-detenuti - in questo momento non esiste. Uno che è dentro
per una sciocchezza può finire in cella con un ergastolano o con
dei veri criminali. E poi si va da un eccesso all’altro: ci sono le misure
alternative ma c’è anche il 41 bis, che è un regime durissimo,
in cui sono tagliati i contatti con l’esterno, in cui si diventa un cane
arrabbiato.
La differenze reali sono quelle fra i diversi
istituti: fra carcere giudiziario e penale, fra le diverse Direzioni, fra
Regione e Regione. C’è ancora una giustizia a macchia di leopardo
e troppa discrezionalità da parte dei Tribunali di Sorveglianza".
Mass
Media Questione di
numeri
I numeri hanno il compito di far apparire
scientifiche le nostre conoscenze e sono chiamati a giustificare ora il
nostro ottimismo (numeri tranquillizzanti)
ora le nostre apprensioni (numeri preoccupanti).
Un importante rapporto su Sert e tossicodipendenze
a Genova tra il 1988 e il 1997 è stato presentato il 26 Aprile nell’ambito
del convegno "Tossicodipendenza a Genova: storia, realtà, progetto".
Contiene considerazioni (ma non numeri!)
rassicuranti ("cresce la repulsione verso la siringa e il buco") e preoccupanti
("crescono le nuove droghe e soprattutto c’è una forte condiscendenza
verso l’alcool"). Contiene anche considerazioni di segno incerto: "drogarsi
non significa più, esclusivamente, segnalare un disagio: cresce
anche a Genova l’abitudine a drogarsi per scopo ricreativo" (Sic!) I Sert
genovesi hanno complessivamente 2500 pazienti e 127 operatori che dai dirigenti
sono giudicati pochi e si vorrebbe aumentati almeno a 200. Malgrado il
numero
ridotto degli operatori la relazione sostiene che almeno il 30%
dei pazienti (numero stupefacente!)
"ce la fa" a uscirne!
(Il Lavoro 25 IV ‘99)
La CGIL Liguria si misura, numericamente parlando, col fenomeno dell’immigrazione in città, e presenta i suoi risultati a Cornigliano durante la giornata europea anti razzista. Finalmente i nostri extracomunitari vengono contati: quelli col pemesso di soggiorno sono un po’ meno di 13 mila e più della metà (62%) abitano nel Centro storico. Quanto alla presenza clandestina essa può essere solo stimata; l’anno scorso le domande di regolarizzazione erano state un po’ più di 4 mila ed è quindi legittimo pensare che i clandestini siano di più. La somma totale potrebbe aggirarsi attorno alle 20 mila persone? Forse; ma ciò che conta (numero incoraggiante) è che i bambini che nascono con almeno un genitore straniero sono più di una quarantina all’anno; sono in aumento e permettono a questa città di dare qualche segno (letteralmente) di rinascita (il saldo demografico - numeri deprimenti! - della città essendo negativo). La presenza extracomunitaria molto visibile per il forte insediamento nel Centro storico è invece di scarso rilievo (numero tranquillizzante) se considerata nei suoi valori percentuali - 1,4% rispetto alla popolazione residente che potrebbe arrivare al 2,5 con i clandestini. Un numero che si offre a contrastanti valutazioni e che non compare nella ricerca della CGIL è che la metà dei detenuti nel carcere di Marassi è costituita da extracomunitari. (Il Lavoro 30 IV ’99)
Numeri e promesse su carcerati e polizia penitenziaria sono stati forniti dal ministri Diliberto in visita alla Scuola di formazione della polizia penitenziaria di Cairo Montenotte il giorno del Primo Maggio (in passato numero esaltante). Sembra che il ministro si sia convinto dell’impossibilità di migliorare la condizione dei detenuti senza riqualificare la polizia penitenziaria (soldi e carriera) e per questo abbia assunto Caselli e licenziato il precedente direttore generale Margara che riteneva "che una polizia più forte avrebbe peggiorato la vita dei detenuti". Nell’occasione sono stato fornite una serie di informazioni numeriche di non facile lettura ma dove emerge incontestabile che il rapporto tra carcerati e sorveglianti è all’incirca di 1 a 1 (numero esaltante)! (La Repubblica 3 V ‘99)
Il rapporto dovrebbe ulteriormente migliorare quando diventerà esecutivo il disegno di legge già approvato in commissione al Senato che prevede che si aprano i cancelli delle carcere per i casi di AIDS conclamato (La Repubblica 15 IV ‘99)
Un incensurato
è finito in galera per il reato di ricettazione per aver pagato
con un assegno fasullo una
notte d’amore con una prostituta albanese
che lo ha denunciato su consiglio di un bancario
dal quale cercava di incassare l’assegno. (La Repubblica 25 IV ‘99)
Sotto
la lente Associazione
ligure per i minori
L’Associazione ligure per i minori (Alpim)
si è costituita nel 1989 per iniziativa di un gruppo di professionisti
(avvocati, giudici, medici) ed ha sede presso il Tribunale per i minorenni
di Genova.
Scopo dell’Associazione, oltre ad un’opera
di sensibilizzazione, informazione e ricerca, è quello di offrire
sostegno ai minori in difficoltà e alle loro famiglie, stimolando
il coordinamento enti e associazioni che operano nel settore minorile.
Tra le varie Commissioni presenti nell’Alpim
(ognuna preposta ad un settore: affidi, scuola, banca dati, ecc.), una
si occupa di "adolescenti devianti o a rischio", a favore dei quali nel
1993 è nato il "Progetto fiducia", di cui fanno parte una "struttura"
e le "borse lavoro".
La struttura, aperta dal ‘93, è
situata a Granarolo, nei locali di un ex asilo infantile. Qui un numero
limitato di ragazzi tra i 14 e i 18 anni possono recuperare la scuola dell’obbligo
con corsi individuali, frequentare i laboratori di cartotecnica, decorazione,
elettricità, cucina e partecipare ad attività ricreative
come cineforum e tornei sportivi. Vi lavorano due educatori a tempo pieno,
appartenenti alla cooperativa "La comunità", artigiani per i laboratori
e cinque insegnanti di scuola media. La gestione del personale e dei programmi
è affidata all’Alpim.
La struttura non è residenziale:
i ragazzi vi sono accolti dalle 8,30 alle 12. Si tratta di minori di qualunque
nazionalità (attualmente vi sono nomadi, nordafricani, slavi oltre
che italiani) o a rischio di devianza in ambito civile e quindi segnalati
dal Servizio sociale territoriale, o oggetto del provvedimento di "messa
alla prova" disposto dal Tribunale per i minorenni.
Per questi ultimi il Ministero di Grazia
e Giustizia corrisponde una cifra che copre parzialmente le spese; per
gli altri provvede l’Associazione con i propri fondi, frutto di donazioni
private.
Una volta deciso l’inserimento, si elabora
un progetto individuale che varia secondo le scadenze processuali. Durante
il periodo in cui è assegnato alla struttura, il ragazzo deve frequentarla
regolarmente e rispettare orari e mansioni; il personale del centro redige
poi una relazione informativa che perviene al giudice ed è un elemento
da cui dipende la durata della messa alla prova.
Questo istituto sospende il processo; se
l’esito è positivo, il reato si estingue e non ne resta traccia
sulla fedina penale. E’ quindi più vantaggioso del perdono giudiziale
e può essere ripetuto. La misura della messa alla prova varia da
tre mesi a tre anni.
La frequentazione del centro, se gli esiti
sono positivi, apre la possibilità di usufruire delle borse lavoro,
attivate dall’Alpim in convenzione con artigiani che operano in vari settori
(carrozzeria, officina, magazzini di ricambi, gastronomia, toelettatura
cani, idraulica, costruzioni edili) e seguite da un educatore di sostegno
e da due operatori Alpim. La durata delle borse varia da sei mesi a un
anno; l’Associazione stabilisce norme e retribuzioni (650.000 lire mensili)
a cui, nei casi di messa alla prova, concorre il Ministero.
Concepite più come mezzo che come
fine le borse lavoro sono importanti per l’esperienza che permettono di
affrontare in un contesto ritenuto di per sè rieducativo.
il
caso pulizia etnica
di casa nostra
A Genova, accanto agli stabili, residenti
nei campi attrezzati, transitano anche alcuni nomadi e profughi (circa
300-400 all’anno) provenienti da varie parti dell’Europa (ex-Jugoslavia,
Spagna, Francia). La città è un luogo di passaggio per varie
ragioni: l’imbarco, l’ospedale Gaslini, il carcere di Marassi. Il problema
è che a Genova non sono presenti campi di transito.
Quando queste persone arrivano - di solito
si fermano in alcuni piazzali o svincoli autostradali periferici - vengono
immediatamente fatte sgomberare e vengono accompagnate ai confini della
città, in un altro Comune, dove probabilmente riceveranno analogo
trattamento.
Pulizia di casa nostra
Duecento tra poliziotti, carabinieri, polizia,
vigili urbani e pompieri sono stati mobilitati per allontanare dalla città
una sessantina di Rom, provenienti da Sarajevo, che negli ultimi sei mesi
si erano insediati accanto al campo nomadi autorizzato di via dei Pescatori,
alla Foce.
All’alba del 16 aprile, sotto la pioggia,
sono iniziate le operazioni di sgombero su ordinanza del sindaco Pericu
e sono terminate la sera.
Demolite una trentina di baracche e roulottes.
Le proteste dei nomadi di fronte alla distruzione delle loro abitazioni
non sono servite a niente. Una anziana donna, in preda allo sconforto,
si è gettata a terra sul suo mucchio di vestiti e oggetti ormai
ammassati sul piazzale.
La sera i Rom sono stati scortati fuori
dalla città, fino al confine con Mignanego.
Qui si sono perse le loro tracce.
Questioni di igiene
Ai primi di maggio, il Tribunale dei Minori
ha tolto i quattro figli ad una giovane ragazza rom, residente nel campo
nomadi di via dei Pescatori, alla Foce.
Ragione di questo provvedimento è
stata la segnalazione da parte della polizia di uno stato di abbandono
e disagio, in cui i bambini si sarebbero trovati.
La madre dal canto suo, allontanata dai
suoi figli, si chiede chi si prenderà cura di loro e come potrà
essere allattato il suo ultimo nato, di appena due mesi.
Tuttavia, dalle indagini dei servizi sociali
del Comune (Ufficio stranieri e nomadi) sul nucleo famigliare, i bambini
non sembrerebbero trovarsi in condizioni di particolare difficoltà.
Anzi, il più grande frequenta la scuola materna (cosa molto rara
per i nomadi del campo che solitamente cominciano ad andare a scuola dalle
elementari) e il secondo è in lista di attesa per entrarci.
Sulla base di queste indagini, i servizi
sociali chiederanno al Tribunale il loro ritorno immediato presso la famiglia
di origine.
Ufficio stranieri
A Genova risiedono circa trecento nomadi
alloggiati nei campi attrezzati del Comune. Parliamo della loro situazione
con Vittorio Gallo della Direzione servizi sociali - Ufficio stranieri
e nomadi.
Quanti nomadi ci sono
a Genova in questo momento?
Innanzitutto il nomadismo non esiste quasi
più. Quelli che noi continuiamo a chiamare nomadi, ormai sono stanziali.
Le ragioni economiche che prima giustificavano lo spostamento, come il
ferrare i cavalli, non sussistono più, tranne per coloro che sono
legati al mondo del circo. Ora queste persone, se si spostano, lo fanno
per altre ragioni, come, per esempio, andare a trovare i parenti.
In città attualmente risiedono trecento
nomadi, ripartiti in tre campi, di cui due ospitano Rom di origine jugoslava
- uno alla Foce, in via dei Pescatori e uno a Molassana, in via Adamoli
-. Nel terzo campo, invece, sono presenti Sinti, di origine e di cittadinanza
italiana.
Di cosa si occupa
il vostro ufficio?
Il nostro ufficio agisce su tre livelli.
L’obiettivo comune è che i nomadi diventino cittadini con pari diritti
e pari doveri.
Il primo livello di intervento è
quello dell’inserimento scolastico.
A Genova, la frequenza scolastica è
alta rispetto alle medie nazionali. Potrebbe esserlo ancora di più
se lo scopo fosse semplicemente quello di togliere dalla strada i bambini.
Il nostro intento, invece, è quello della responsabilizzazione e
autonomia delle famiglie. Per questo abbiamo progettato modalità
di intervento diverse con l’andare del tempo: all’inizio c’era un pulmino
con due educatori che si occupavano di portare i bambini a scuola; successivamente
agli educatori si sono sostituiti due adulti dei campi, anche per agevolare
il contatto tra scuola e nomadi. L’ultimo passo è stato quello di
eliminare il pulmino e di far sì che ogni famiglia si occupasse
direttamente dell’accompagnamento dei bambini.
Il secondo livello di intervento è
quello dell’inserimento lavorativo.
In questo ambito ci sono state varie iniziative:
sono state assegnate alcune borse lavoro e sono stati attivati alcuni corsi
di formazione professionale. I risultati sono stati molto soddisfacenti:
alcuni nomadi hanno trovato lavoro a tempo indeterminato, e, in ogni caso,
quasi tutti ruotano intorno al lavoro legale, anche se spesso sommerso.
L’idea che lo zingaro non sia capace di
reggere i contesti lavorativi strutturati è superata, anche se l’inserimento
lavorativo e quello scolastico sono molto lenti. Non si vuole cadere nell’assistenzialismo
e l’obiettivo è la realizzazione di percorsi di autonomia. L’ultimo
livello di intervento è l’inserimento abitativo.
I campi in generale non hanno futuro: ci
sono pochi spazi, la natalità è alta - tre/quattro figli
per famiglia - e i vecchi, per fortuna, vivono a lungo. Bisogna pensare
ad altre soluzioni come per l’appunto l’assegnazione di case.
Immigrati
in carcere
Colloquio
con Angelo Manes, Direttore del carcere di Marassi
Quanti sono i detenuti
stranieri nel carcere di Marassi?
Il 50% del totale dei detenuti.
Rispetto agli altri
detenuti, hanno disagi particolari, legati per esempio al problema della
lingua?
Non direi… Di solito la maggior parte conosce
già le regole perché non è alla prima esperienza di
detenzione, quindi sa già muoversi.
Chi materialmente
li informa sui loro diritti e sulla possibilità di usufruire dei
benefici previsti dalle leggi?
Qualche anno fa era disponibile un quaderno
contenente queste informazioni tradotte in varie lingue. Era stata un’iniziativa
di Milano e anche noi l’avevamo adottata. Poi è stato eliminato
perché costava troppo. Comunque ci sono volontari ed educatori che
si prodigano per questo e poi gli altri detenuti della stessa nazionalità.
Non si sono mai verificati particolari problemi. Inoltre quei pochi che
sono alla prima esperienza di carcerazione hanno a disposizione l’Ufficio
nuovi giunti, con uno psicologo che indirizza il soggetto e dà informazioni.
I detenuti stranieri
hanno diritto agli stessi benefici degli italiani?
In teoria sì, in pratica no per
difficoltà oggettive di applicazione: gli stranieri infatti non
hanno quasi mai alternative al carcere su cui basare l’applicazione di
benefici, intendo dire un lavoro, un domicilio, punti di riferimento sul
territorio. E poi è rarissimo che possano pagarsi un avvocato, quindi…
Per quanto riguarda
i tipi più frequenti di reati, c’è differenza tra italiani
e stranieri?
No, non direi. La maggior parte dei detenuti
di Marassi è dentro per reati legati a uso e spaccio di droga e
questo vale anche per gli stranieri, forse per gli stranieri un po’ di
più.
Cioè? Vuol
dire che gli italiani percentualmente commettono reati più gravi?
Sì, forse sì.
Allora si può
verificare che italiani detenuti per reati piuttosto gravi ottengano misure
alternative al carcere e che, al contrario, detenuti stranieri restino
in carcere, pur avendo commesso reati di minore entità?
Sì, si può verificare.
Dritte
& Diritti carceri
in attività
In diverse carceri italiane si svolgono
attività in favore dei detenuti. Alcune iniziative sono obbligatorie
e prescritte per legge, come lo sportello del detenuto. Altre, come la
promozione di giornali progettati all’interno delle carceri stesse, sono
pensate come intervento rieducativo, o collegamento per un reinserimento
sociale.
Alcune sono attuate anche nella nostra
città, altre è possibile che siano poste in atto in un prossimo
futuro.
I giornali in carcere
Alcune direzioni di carceri italiane hanno
promosso al loro interno l’attività giornalistica, partendo dall’assunto
stabilito per legge che nei confronti del carcerato venga attuato un trattamento
rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno,
a un loro reinserimento sociale.
Gli istituti che promuovono un giornale
proprio sono 19, pari al 10% delle case in Italia. 15 sono case circondariali,
4 sono case di pena.
52% sono al Nord Italia, 32% sono in Centro,
16% al Sud.
Chi fa il giornale solitamente sono gli
stessi detenuti. Si scrive di attualità e raramente si è
sottoposti a censura, tranne che per linguaggio particolarmente sconveniente
o - ci dicono - per osservazioni "poco costruttive".
Attualmente, non risulta che nelle carceri
genovesi venga fatto un giornale.
Lo sportello del detenuto
Previsto dalle legge Simeone, lo sportello
sul carcere dovrebbe essere obbligatorio in tutte le carceri d’Italia.
Prevalentemente dovrebbe dare informazioni
sulle leggi e sulle possibilità di misure alternative al carcere.
A Genova non è ancora stato istituito
ma è in fase di progettazione e dovrebbe partire dopo l’estate.
Servirà non solo per i detenuti, ma anche per gli operatori e per
tutti i cittadini interessati alla situazione delle carceri.
La sua realizzazione è compito del
Centro Servizio Sociale Adulti (Passo Frugoni 4-9, tel. 010 53471).
Il Ser.T. in carcere
Il Servizio Tossicodipendenze in carcere
si occupa della distribuzione del metadone, segue i tossicodipendenti che
precedentemente avevano un contatto con le strutture all’esterno del carcere
e prende in carico quelli che non erano seguiti da nessuno. Organizza colloqui
a scadenza settimanale con i detenuti e svolge una funzione di raccordo
fra l’interno del carcere e l’esterno. E’ fra i promotori della Sezione
a Custodia attenuata all’interno del Carcere di Marassi.
a Torino
Salute e carcere
A Torino il Centro di documentazione Carcere
e Salute del settore educazione Sanitaria USL 1 ha pubblicato una guida,
divisa in otto capitoli, dedicata alla salute. Vi si tratta del diritto
del detenuto alla salute, dell’assistenza sanitaria, della tossicodipendenza,
di HIV e Aids, di permessi e affidi, di indirizzi utili (nel distretto
di Torino). La guida fornisce inoltre una lista di tutti i servizi che
sostengono il detenuto al momento dell’uscita dal carcere.
Per informazioni rivolgersi al Centro Documentazione
Carcere e Salute presso il Settore Educazione Sanitaria, Tel. 011 5661566.
Minori e città
Nell’istituto minorile Ferrante Aporti
di Torino, uno dei pochi carceri minorili del Nord Italia, dove vengono
mandati anche i giovani liguri, fra le diverse attività organizzate
per aiutare i ragazzi in un processo di reinserimento all’uscita dal carcere,
viene fatta una mappatura della città di residenza, segnalando,
oltre ai nomi delle strade, come nelle cartine turistiche, gli indirizzi
dei servizi a cui ci si può rivolgere all’uscita dal carcere. Problemi
incontrati sono la forte presenza di extracomunitari, nonché di
giovani non residenti a Torino.
a Milano
Un carcere aperto
all’esterno: San Vittore
Nel carcere di San Vittore ci sono diverse
cooperative (di falegnameria, di pelletteria ecc.), oltre che numerosi
corsi di formazione. La formazione viene fatta anche all’esterno, sul posto
di lavoro per aumentare le opportunità di inserimento lavorativo.
Tra le attività svolte in collaborazione
con enti esterni si segnalano quelle con il Comune di Milano e con la TIM.
Per informazioni rivolgesi a San Vittore, Tel. 02 4692323.
DOMANDE
E RISPOSTE diritti
del detenuto
A quali benefici ha
diritto un carcerato?
I benefici sono vari, da quelli più
semplici come il permesso di telefonare ai familiari a quelli più
complessi come l’affidamento, il differimento della pena, la semilibertà.
Chi decide se concederli
o no?
Dipende dal beneficio e dalla posizione
giuridica del detenuto. La direzione del carcere decide per benefici di
routine (telefonate, colloqui) riguardanti i detenuti definitivi. Se i
detenuti sono appellanti o con processo in corso decide il giudice di sorveglianza;
autorizza anche ricoveri o visite specialistiche su richiesta del medico
del carcere; approva programmi di lavoro all’esterno disposti dal direttore;
concede permessi di necessità (pericolo di vita di un familiare
o altri gravi motivi) o di premio. Per le misure alternative alla detenzione
come l’affidamento, la detenzione domiciliare, la semilibertà decide
invece il Tribunale di sorveglianza, nella forma di una commissione di
quattro persone, due togate e due esperti.
Se un detenuto chiede
di lavorare, che possibilità ha?
Non molte. Attualmente nel carcere di Marassi
su 800 detenuti soltanto 70 lavorano e tutti come addetti a mansioni domestiche
all’interno del carcere. L’istituzione non offre altro per carenza di fondi;
un detenuto infatti è per legge equiparato a qualunque altro cittadino
ed ha quindi diritto a stipendio e contributi. Nel caso di progetti che
prevedono un lavoro all’esterno del carcere, è il detenuto che deve
procurarselo.
E’ facile ottenere
un permesso premio? Quanti giorni si possono concedere?
I giorni sono fino ad un massimo di cinque
alla volta, per un totale non superiore a 45 giorni all’anno. Per ottenere
il permesso sono necessari alcuni requisiti come la buona condotta e il
decorso di un periodo minimo di pena che varia secondo i reati (un quarto
della pena per i reati meno gravi, metà per quelli più gravi
come rapina, omicidio e terrorismo e la collaborazione per i reati di associazione
mafiosa, spaccio di droga e sequestro di persona). Inoltre è richiesto
il parere di educatori, psicologi, del direttore del carcere e degli agenti
penitenziari ed è richiesta una valutazione della pericolosità.
Chi valuta la pericolosità?
E’ un parere tecnico ed è richiesto
a carabinieri e polizia sulla base del tipo di reato, dell’eventuale partecipazione
ad organizzazioni criminali o al comportamento durante precedenti carcerazioni.
Che cosa si deve fare
per chiedere di usufruire di un beneficio?
Si deve compilare una domanda. Tutto in
carcere si chiede attraverso una domanda scritta. Ci sono moduli prestampati
per chiedere un colloquio o un’udienza, ma anche per essere semplicemente
autorizzati a fare una spesa.
Dove finiscono le
domande? Vengono protocollate?
Non tutte sono protocollate, soltanto quelle
rivolte all’esterno, ad esempio al giudice o al Tribunale. Una volta compilate,
vengono ritirate e consegnate all’Ufficio Matricola che provvede a smistarle
secondo la competenza sulla base della posizione giuridica del detenuto;
se sono domande di spesa, competente è l’Ufficio conti correnti
che gestisce i soldi dei detenuti.
C’è qualcuno
che informa il detenuto dei suoi diritti?
C’è il Servizio nuovi giunti, con
uno psicologo che accoglie e indirizza chi è alla prima esperienza
di carcere e al tempo stesso fornisce tutte le informazioni necessarie.
Poi ci sono gli educatori, i volontari.
E per gli stranieri
che non conoscono la lingua?
Per un certo periodo nel passato è
stato disponibile un quaderno con i diritti dei detenuti tradotti in varie
lingue. Ora non c’è più, costava troppo. Allo scopo si prodigano
educatori e volontari, oltre agli altri detenuti della stessa nazionalità.
Anche gli stranieri
possono godere degli stessi benefici degli italiani?
In teoria sì, ma in pratica no,
perché è molto più difficile la loro applicazione.
Questo perché gli stranieri spesso non hanno domicilio, possibilità
di lavoro, punti di riferimento sul territorio, inoltre quasi mai possono
permettersi di pagare un buon avvocato che li difenda e si adoperi per
seguire le loro pratiche.
Quanto si deve aspettare
perché una domanda sia accolta?
Di solito un mese e mezzo circa trascorre
prima che la domanda arrivi sul tavolo del giudice che, a sua volta, fissa
l’udienza a distanza di qualche mese.
Perché ci vuole
tanto?
Il mese e mezzo che precede l’azione del
giudice può essere impiegato per tenere in osservazione il detenuto
o per permettere all’assistente sociale di appurare le reali possibilità
offerte dall’ambiente esterno cui il detenuto è legato. A volte
poi si ritiene necessario il parere degli educatori, degli psicologi, della
polizia o dei carabinieri oppure la direzione prende tempo se ha dubbi
o se il detenuto non ha una famiglia disposta ad accoglierlo.
anno due - numero cinque - maggio 1999 -
distribuzione gratuita
Rivista mensile di carattere socio-culturale
- A cura dell’Associazione Comunità San Benedetto al Porto - Via
S. Benedetto, 12 - 16129 GENOVA - tel. 010267877 - fax 0102464543 - Autorizzazione
del Tribunale di Genova n° 32/98 del 24-11-1998 Redazione: Via
Amba Alagi 6/8r - 16129 GENOVA - tel & fax 0102461290 - e-mail: [email protected]
- http://space.tin.it/edicola/lizaccar - Direttore responsabile:
Francesco Pivetta - Caporedattore: Claudio Costantini - Hanno
collaborato a questo numero: Hassan Assaad, Maria Cecilia Averame,
Gabriele Baroni, Roberto Boca, Manlio Calegari, Carola Frediani, Marco
Lombardo, Elvira Malfatto, Massimiliano Olivieri, Gabriella Paganini, Liana
Prezioso - Gli articoli possono essere riprodotti citando la fonte - Il
progetto dell’Associazione San Benedetto al Porto, in collaborazione con
il Ser.T. Usl 3 genovese e la L.I.L.A., è finanziato dal Fondo Regionale
lotta alla droga della Regione Liguria (delibera della Giunta n° 740
del 27.03.1998) - Tiratura: 2500 copie - Stampato presso: TipoLitografia
- Coop. Soc. La Lanterna.